
di ERNESTO BILLÒ
Fu Cesare Pavese a porgerle il libro di un autore americano ancora ignoto dicendole: “Sono sicuro che lei capirà cosa vuol dire”. Una fiducia ben riposta, anche se lei, Fernanda Pivano, era ancora molto giovane, figlia di una famiglia facoltosa ma rischiosamente antifascista. Si era nei primi anni Quaranta, neppure i libri americani erano ben visti dal Regime; e proprio per questo Pavese ne era avido.
Quel libro era l’”Antologia di Spoon River”; ma dell’autore Edgar Lee Masters neppure Pavese sapeva qualcosa. Fernanda ne fu subito conquistata. Quei versi, quelle epigrafi di un cimitero sperduto “facevano vivere passioni dimenticate o soffocate, parlavano di amore, di speranza, di fiducia, del vero senso della vita; e hanno molto contribuito a cambiare i pensieri miei e dei ragazzi d’allora, mentre la guerra, la violenza, la follia dilagavano. Così dice adesso dalla soglia dei novant’anni l’illustre traduttrice che, dopo quella prima prova, ha fatto conoscere in Italia tanti altri scrittori e poeti d’oltre oceano.
Reduce dal confino e da tormentate storie d’amore, anche Pavese era allora in cerca di libri (scritti da lui o da altri) che l’aiutassero a vivere. Aveva già molto tradotto (Lewis, Anderson, Melville, Joyce. Dos Passos. De Foe, Steine, Faulkner…), ed era riuscito a pubblicare le poesie di “Lavorare stanca” nel ’36 e i racconti di “Paesi tuoi” e de “La spiaggia” nel ’41-42. Quando seppe che Fernanda, già intravista giovane, bionda e bella, sui banchi del Liceo “D’Azeglio”, stava lavorando per la tesi su un poeta inglese, nientemeno che Shelley, le aveva chiesto a bruciapelo: “Perché non un americano?”.
Per convincerla le aveva passato edizioni in lingua originale di Melville, Hemingway, Whitman e, appunto, Lee Masters. Si recò più volte nella casa agiatamente borghese di lei per spiegarle come si interpreta un poeta; ma le lezioni potevano anche spostarsi sulla panchina di un viale torinese. «Io cominciai a tradurre versi di Lee Masters su un quadernetto – racconta ora la Pivano – finché Pavese lo trovò, lo sfogliò, disse “Ah!”, e se lo mise in borsa. Due giorni dopo tornò con una proposta di contratto dell’editore Giulio Einaudi. Fu un ‘Ah!’ che segnò il mio destino». Un destino che – complice la guerra – passò pure per Mondovì.
Per sfuggire ai pesanti bombardamenti su Torino (che infierirono due volte sulla sede dell’Einaudi), tra il finire del 1942 e la metà del 1944 Fernanda Pivano visse infatti da sfollata a Mondovì. Pavese la raggiunse con almeno 26 lettere, riprodotte in “Cesare Pavese - Lettere 1925 - 1944, Einaudi, 1966). La prima reca la data 22 dicembre 1942, l’ultima la data 3 maggio ’44. E parecchie lettere gli indirizzò Fernanda da Mondovì. Intanto con alcuni giovani monregalesi attenti al nuovo amava ascoltare dischi di jazz e parlare di scrittori e film americani; né disdegnava le battute pungenti e le storielle scherzose, come ebbe ad attestare Giovanni Borgna, uno di quei giovani da tempo scomparso.
Cesare e Fernanda s’incontrarono anche sulle rive d’Ellero? Il 22 dicembre ’42 Pavese le scrisse: “Io ricordo con disappunto e tenerezza il mio viaggio a Mondovì. Dico disappunto perché, se mi fosse toccato passeggiare a braccetto con lei due anni fa, avrei toccato il cielo con un dito”. E annunciò altre visite, chissà se avvenute, il 20 gennaio, il 9 marzo, il 17 marzo ’43 (in quei mesi egli era a Roma, sotto altre bombe, a dirigere la filiale Einaudi). Di sicuro la Pivano seppe a Mondovì che l’”Antologia di Spoon River” da lei tradotta era finalmente uscita da Einaudi, in momenti tutt’altro che facili per la sua diffusione. Glielo scrisse Pavese il 15 aprile del 1943: “E’ il momento in cui lei, se è in gamba, può acchiapparmi e bagnarmi il naso. Basta che lavori, studi, traduca e sforzi la testina. Diventerà celebre, scriverà libri, troverà la cattedra, sarà una luminare della filologia”. Dal settembre ’43 conosciamo solo tre lettere di Cesare a Fernanda: il 2 settembre, indirizzata a Mondovì Breo, e il 3 maggio ’44 da Serralunga di Crea, dove lo scrittore era a sua volta sfollato presso la sorella Maria.
Cesare ne era innamorato? Dopo le delusioni sentimentali, specie per “la donna dalla voce roca”, si sentiva certo attratto dalla sua intelligenza, freschezza, vitalità; ma i due continuarono a trattarsi con il “lei” (allora messo al bando dal regime). La protagonista de “La spiaggia” gli fu forse ispirata dalla Pivano, e così alcune poesie di una nuova edizione di “Lavorare stanca”. Sul frontespizio di “Feria d’agosto” avrebbe poi indicato due date, con una croce: 26 luglio ’40 - 10 luglio ’45, le date delle sue richieste di sposarlo, e dei dinieghi di lei. Nel diario de “Il mestiere di vivere” la indicò ora come “Gognin”, ora come Fern. E quando poi la Pivano sposò un altro nell’ottobre 1946, Pavese ostentò distacco: “Do dentro al romanzo. La Piv. s’è sposata stamattina. Sono raffreddato. Bene”.
Fernanda Pivano, oggi indomita novantenne, diventò, davvero, una traduttrice e saggista alle cui scelte anticonformiste molto deve la conoscenza della moderna letteratura americana nel nostro Paese. E nei giorni scorsi, sul “Corriere della Sera” ha voluto ribadire con sincero affetto quanto Pavese e quanto Lee Masters siano stati determinanti per la sua formazione e la sua vita. E piace pensare che anche Mondovì abbia allora avuto un suo piccolo ruolo.