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mercoledì 19 Febbraio 2025     Accedi

Il Monastero di San Biagio compie mille anni!

Il primo priore fu Eremberto, nel 1014.

Marco Turco

ERNESTO BILLO'
A segnare dopo mille anni una ripresa di vita contemplativa nella frazione monregalese di San Biagio venne dalla Francia nel maggio 1972 fratel Maurice deciso a vivere da eremita tra preghiera e lavoro in una capannuccia a cento metri dall’antico monastero divenuto cascina. Ci restò pochi mesi, ma gettò un seme. A farlo fruttificare, in quella stessa estate giunsero da Roma altri trappisti, spinti dalla Provvidenza incarnata da Rita Gastaldi, una buona insegnante di Chiusa Pesio intenzionata a donare cascina, ex chiesa e terre della sua famiglia a una comunità religiosa, restituendole così al loro antico ruolo.
Venne in avanscoperta l’abate delle Frattocchie a controllare di persona se il luogo era adatto ad ospitare una piccola comunità o magari l’intero convento romano assediato dal frastuono della via Appia e dagli aerei di Ciampino; e fu subito conquistato da questa “beata solitudo”. La “Gesia Veja”, è vero, era ridotta a fienile; il campanile romanico, ancor saldo, faceva da sentinella a muri cadenti, a travi sconnesse, a finestre divelte, mentre una serie di meridiane continuava ad ammonire sullo scorrere del tempo e sulla caducità del mondo. Ma l’abate mandò frate Angelo, fra’ Ferdinando e fra’ Filiberto perché tentassero di riallacciare i fili di una tradizione monastica. Dei tre soprattutto fra’ Filiberto aveva in sé la capacità e l’energia per affrontare l’impresa anche da solo, anzi meglio se da solo, dato il suo forte temperamento. Infatti, di lì a non molto, restò solo, a fare da sé ma per tre. Non per niente era stato – nel secolo – l’ingegner Filiberto Guala, manager dell’Expo di Torino ‘61 e soprattutto potente amministratore delegato della Rai quando la TV di Stato non aveva ancora concorrenti.
Radici remote - L’appartata e operosa frazione di San Biagio ritrovò così la sue radici remote, di quando il monastero a specchio del Brobbio e del Pesio ospitava un priorato benedettino fra i primi in queste plaghe, con i muri severi quanto le regole, con il chiostro austero, le celle spoglie, le grange mugghianti, il fervido attivismo, il fitto pregare. L’anno Mille era da poco trascorso senza i temuti finimondi, e un soffio d’aria nuova filtrava fin qui. Certo qui c’era da fare proprio tutto, perché non c’erano né canali irrigui né ruote di mulini, ma sterpaglie, acquitrini, povere anime di pastori. I primi monaci seguaci di san Guglielmo mandati dall’abbazia di Fruttuaria si rimboccarono maniche e saio e cominciarono il risanamento orando e pregando. E i signori di Morozzo, che dominavano queste terre fino alle cime dei monti, favorirono il sorgere e il dilatarsi del priorato con donazioni ed esenzioni. Il primo gesto di non disinteressata generosità fu compiuto forse da un Eremberto intorno al 1014, imitato poi da altri Morozzo. E fin dai primi tempi il priore acquistò diritti ed entrò a far parte della giurisdizione dei Morozzo. Poi nel 1176, i Morozzo favorirono anche il sorgere del monastero femminile di Pogliola che coi monaci di San Biagio entrarono in rapporti di buon vicinato. Ma mentre le scorbutiche monache tirarono avanti fin al 1592 e poi molto a malincuore dovettero trasferirsi nella più sicura Carassone, i benedettini a San Biagio durarono solo fino a metà ‘400. Ebbero ancora la soddisfazione di veder consacrare vescovo di Mondovì un loro ex priore, Franceschino Fauzone, nel 1413; ma toccò ad un altro Fauzone, Giorgio, la sorte di ultimo priore regolare, perché i beni di San Biagio, come quelli di altri monasteri della zona, andarono a rimpinguare la “mensa capitolare” dei canonici monregalesi.
La “Gesia Veja” - Bontà loro, i canonici stipendiarono un cappellano e lasciarono la chiesa dell’ex convento a disposizione dei frazionisti perché questi non avessero a sentirsi troppo lontani da Dio e dai santi. E la chiesa continuò ad arricchirsi di begli affreschi e di un’icona particolarmente pregevole all’Immacolata. Quasi un secolo dopo, nel 1676, quella chiesa divenne parrocchia sotto il vicario don Giovanni Bellisio, primo di una quindicina di bravi pastori. La cascina “Chiesa” restò ai canonici fino al 1873, poi fu ceduta ai Turco di Vasco eccetto la “Gesia Veja”, che funzionò fino ai primi del ‘900 quando un vicario benemerito ed incompreso, il bastiese don Chionetti, si impegnò a costruire una chiesa più centrale, capiente e decorosa su progetto degli ingegneri Montezemolo e Bedarida. Fu consacrata nel 1904, ma creò dispiaceri al vicario che, colpito da dicerie e accuse, finì per fuggire lontano.
Quanto al monastero, rinato nel 1972 a vita nuova dopo mille anni, riprese a meditare, pregare e lavorare sull’esempio di san Bernardo. La comunità trappista non si allargò oltre fra’ Filiberto, ma il richiamo alla contemplazione proseguì, e continua con Clelia Ruffinengo e con l’apporto di tanti altri, nel segno anche dell’ecumenismo, sicché a San Biagio si torna a riflettere, confrontarsi, pregare, riscoprire orizzonti obliati, accenti e valori profondi. Ed è ciò che si è fatto domenica, con voci ed esperienze diverse in dialogo proficuo, rievocando una vicenda millenaria di vita contemplativa e di operosità e, con essa, la figura e l’opera del rifondatore fra’ Filiberto.


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