Professionale, esperto, rigoroso. E mai banale. È l’identikit di Luca Filippi, da qualche tempo gravitante nell’orbita Indycar, e molto spesso – suo e nostro malgrado – in vana attesa di un contratto o di una chiamata. Ma quando la chiamata arriva, perché un team finalmente si è deciso a puntare su di lui, si finisce per scoprire – o meglio, per aversi l’ennesima conferma – che la stoffa c’è e che è buona anche per le corse d’oltreoceano. Raramente, infatti, il ragazzo di Mondovì Piazza – ormai prossimo ai trent’anni di età, di cui moltissimi spesi al volante di una qualche monoposto o vettura da competizione, dal karting al professionismo attraverso peripezie a quattro ruote d’ogni genere – finisce per nascondersi nel gruppone di quelli che non appaiono, che sono inghiottiti nelle parti grigiastre ed anonime di una corsa. Assai più frequentemente, invece, ne vien fuori qualcosa di divertente, di appassionante: non necessariamente la storia di un successo, ma comunque di un’avventura che vale la pena di vivere e di raccontare. Così è accaduto anche questa volta, a Houston, teatro dell’ultima apparizione di Luca in Formula Indy e a conclusione di un periodaccio forzatamente sabbatico, dato che, evidentemente, nel mondo dei motori ben più del talento e delle qualità di un pilota contano gli sponsor, gli agganci, le ragioni del portafogli. Però talvolta capita che il sedile di una qualche monoposto resti improvvisamente vuoto per una o più gare, o per un pezzo della stagione, ed ecco che spunta, per il nostro, l’occasione di riassaggiare l’asfalto e di archiviare un periodo fatto di molti, troppi mesi trascorsi alla finestra dell’agonismo. E quando riprende i comandi di uno di quei bolidi, si diceva, Filippi non si accontenta mai della maschera del comprimario. Pretende da se stesso e dalla macchina che gli affidano, e normalmente finisce per ottenere, un exploit, un risultato eccellente, un ruolo da protagonista: anche se il weekend in pista si conclude con un ritiro e senza punti in classifica. A Houston, è andata proprio in questo modo: una sceneggiatura già vista, ripercorrendo la carriera di Filippi ed in particolare i tempi della GP2 Series. Luca, dopo quasi un anno al palo, è partito forte ed ha portato subito in alto la Dallara-Honda del team Rahal Letterman Racing: terzo nella seconda sessione di prove libere, quarto in qualifica. Un risultato prestigioso, commentato così da Italiaracing.net: «Alla prima gara con il team Rahal e con una vettura veramente competitiva, il piemontese ex vicecampione della GP2 Series ha messo in campo una qualità assoluta, proponendosi al vertice. Con quale scusa gli potrà essere negato un sedile a tempo pieno?». Domanda ricorrente e, purtroppo, da troppo tempo senza risposta.
Poi, la gara uno, ricca di molti spunti positivi ma incrinata da un incidente – complice l’asfalto bagnato ed i problemi di tenuta della vettura – e dal conseguente, inevitabile ritiro. Un peccato, perché Filippi si era tenuto a lungo nelle posizioni di testa, dimostrando maturità e tenacia e facendo dimenticare a tutti di essere l’ultimo arrivato. Così anche la gara due, compromessa dalla collisione contro le gomme di protezione dopo una “stretta” fra Power e Montoya, e conclusa comunque al quindicesimo posto. I piazzamenti, i punteggi e le classifiche, però, contano nulla o quasi nulla, perché Filippi con Rahal, a termini di contratto, non avrà che un’altra occasione per scendere in pista (a Toronto, il 19 e 20 luglio). Conta, piuttosto, che un pilota ingiustamente parcheggiato ai margini del carrozzone ancora una volta abbia dimostrato di saperci fare. Possibile che tutto questo sia destinato a cadere nel vuoto pure nella meritocratica società americana?