“Oggi, a seguito di un’evoluzione positiva della coscienza dell’umanità, la schiavitù, reato di lesa umanità, è stata formalmente abolita nel mondo. Il diritto di ogni persona a non essere tenuta in stato di schiavitù o servitù è stato riconosciuto nel diritto internazionale come norma inderogabile. Eppure, malgrado la comunità internazionale abbia adottato numerosi accordi al fine di porre un termine alla schiavitù in tutte le sue forme e avviato diverse strategie per combattere questo fenomeno, ancora oggi milioni di persone – bambini, uomini e donne di ogni età – vengono private della libertà e costrette a vivere in condizioni assimilabili a quelle della schiavitù”.
La denuncia è contenuta nel messaggio di papa Francesco per la Giornata mondiale della pace (1° gennaio 2015) che porta la data dell’8 dicembre 2014, dal titolo “Non più schiavi, ma fratelli”. Un tema che gli sta particolarmente a cuore. Da quando è stato eletto vescovo di Roma (l3 marzo 2013) al dicembre 2014 ne ha parlato, in vari contesti, almeno una trentina di volte. Per sconfiggere un tale abominevole fenomeno, che supera le competenze di una sola comunità o nazione, occorre – scrive Francesco nel messaggio per la Giornata mondiale della pace 2015 – “una mobilitazione di dimensioni comparabili a quelle del fenomeno stesso”. Purtroppo – confessa amaramente papa Francesco – non è facile smentire l’impressione che il fenomeno della tratta delle persone e delle nuove forme di schiavitù perduri “nell’indifferenza generale.
E’ il motivo per cui Francesco lancia un pressante appello a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, e a tutti coloro che, da vicino o da lontano, anche ai più alti livelli delle istituzioni, sono testimoni di questa attività ignobile. E propone alcune azioni molto concrete sintetizzabili in una sorta di decalogo: (1) non rendersi complici del male delle nuove forme di schiavitù; (2) non voltare lo sguardo di fronte alle sofferenze di fratelli e sorelle in umanità sistematicamente privati della libertà e della dignità; (3) resistere alla tentazione di comportarci in modo non degno della nostra umanità; (4) tessere relazioni interpersonali improntate a rispetto, giustizia e carità; (5) relazionarsi con la persona umana, creata ad immagine e somiglianza di Dio, non alla stregua di un mezzo, ma sempre di un fine; (6) vigilare, da parte degli Stati, perché le legislazioni nazionali sulle migrazioni, sul lavoro, sulle adozioni, sulla delocalizzazione delle imprese e sulla commercializzazione di prodotti realizzati mediante lo sfruttamento del lavoro siano realmente rispettose della dignità della persona; (7) riconoscere e valorizzare il ruolo della donna anche sul piano culturale per il raggiungimento dei risultati sperati; (8) attuare, da parte delle organizzazioni intergovernative, iniziative coordinate per combattere le reti transnazionali del crimine organizzato che gestiscono la tratta delle persone umane ed il traffico illegale dei migranti; (9) garantire, da parte delle imprese, ai lavoratori condizioni di lavoro dignitoso e stipendi adeguati e vigilare affinché forme di asservimento o traffico di persone umane non abbiano luogo nelle catene di distribuzione; (10) sensibilizzare e stimolare, da parte delle organizzazioni della società civile, le coscienze sui passi necessari da compiere per contrastare e sradicare la cultura dell’asservimento.
Alla globalizzazione dell’indifferenza, “che oggi pesa sulle vite di tante sorelle e di tanti fratelli”, va contrapposta “la globalizzazione della solidarietà e della fraternità che possa ridare loro la speranza”. Lasciandoci interpellare quando, nella quotidianità, incontriamo o abbiamo a che fare con persone che potrebbero essere vittime del traffico di esseri umani o quando dobbiamo scegliere se acquistare prodotti che potrebbero ragionevolmente essere stati realizzati attraverso lo sfruttamento di altre persone. Non chiudendo gli occhi davanti alle loro sofferenze per indifferenza o per distrazione o per ragioni economiche. Scegliendo anche noi di fare qualcosa di positivo a favore delle vittime, assicurando ad esempio forme di sostegno alle Associazioni che nella società civile sono impegnate a contrastare il fenomeno. Compiendo piccoli gesti quotidiani nei confronti di coloro che sono tenuti in stato di asservimento, come rivolgere una parola, un saluto, un buongiorno o un sorriso, “che non ci costano nulla ma che possono dare speranza, aprire strade, cambiare la vita ad una persona che vive nell’invisibilità”, e anche cambiare il nostro modo di rapportarci nei confronti di questo dramma sociale ed umano. Avere il coraggio di costruire rapporti di prossimità con le vittime delle odierne forme di schiavitù significa “avere il coraggio di toccare la carne sofferente di Cristo, che si rende visibile attraverso i volti innumerevoli di coloro che Egli stesso chiama “questi miei fratelli più piccoli” (Mt 25, 40.45).