
“Ho avuto finora una vita assolutamente normale, come molti altri giovani”. Ce lo dice con estrema semplicità e con altrettanta immediatezza. E’ Federico Boetti (per gli amici, e sono tanti, “Buet”), 28 anni a dicembre, originario di Villavecchia, diacono da alcuni mesi, in attesa di essere ordinato presbitero, sabato 19 settembre, alle 20, in Cattedrale a Mondovì Piazza. Per un verso ha ragione. La sua trafila “normale” ci sta tutta, dentro la generazione di giovani della sua età. ”Beh, ho fatto l’Itis qui a Mondovì, poi mi sono iscritto a Giurisprudenza a Cuneo ed ho conseguito la laurea triennale senza perdere troppo tempo. Ho giocato appassionatamente al calcio, nonostante la statura che mi fa apparire più un potenziale pallavolista o cestista, che non sono mai stato. Ho coltivato l’amicizia con tanti coetanei, facendo le cose che fanno tutti, anche chiudendo talora le nottate alle cinque del mattino”. Fin qui il tratto della cosiddetta “normalità”. Però il fatto che adesso diventi prete non è poi così… consueto, di questi tempi. Eppure sono stati anche singolarmente “normali” i passi che l’hanno condotto fin qui, alla soglia del presbiterato, in… piena crisi di vocazioni. “Certo, c’è stata una svolta – ci dice Federico –. Ed è stato il momento in cui, appena dati i primi esami in Facoltà a Cuneo, mi sono trovato ad avere a disposizione un mese intero senza lezioni universitarie. Mi sono sorpreso a pormi domande di peso sul senso della mia vita, al di là delle cose che facevo. Gli amici con cui uscivo moltissimo mi dicevano che non era il caso di pensarci troppo, che bastava vivere alla giornata. Poi una sera, spento il televisore, un po’ paradossalmente ho preso in mano il rosario di mia nonna. Ho riprovato a pregare. Poi altri passi, soffermandomi sulle pagine del Vangelo e lasciandomi conquistare da quell’uomo di Nazareth in cui si rivela il Figlio di Dio, capace di dare il giusto senso alla esistenza, come ci ha detto più tardi studiando teologia il prof. don Duilio Albarello allo STI di Fossano. Insomma mi sono messo a vivere da cristiano, dopo che avevo praticato un po’ svogliatamente, tanto per non scontentare chi in casa me lo chiedeva. Poco per volta, andando in Facoltà di Giurisprudenza, mi sono impegnato a frequentare la Messa quotidiana, interrogandomi su ‘come’ vivere da cristiano, se formandomi una famiglia o se cercando altro. Ho impiegato due anni, quelli che mi sono serviti anche per la laurea triennale, a prendere una decisione. Che è stata quella di entrare in Seminario a Fossano e di frequentare i corsi di teologia allo STI. Ho così avuto il modo, in questi cinque anni, di verificare il tenore della mia scelta, superando pure qualche resistenza o diffidenza d’attorno. Credo siano stati importanti questi anni di preparazione. Scavalcarli, come talora succede anche nella prassi ecclesiale che conosciamo, non mi sembra salutare. E poi ho potuto anche fare esperienze di pastorale diretta, prima a Ceva, poi a Cengio, quindi al Cuore Immacolato di Mondovì ed infine adesso al Sacro Cuore dell’Altipiano. Cercando oggi di contemperare pure gli studi in teologia biblica a Milano”.
Come ti senti, da giovanissimo, nella nostra Chiesa monregalese che ha un’età media, per i presbiteri, piuttosto alta? “Indubbiamente nella nostra Chiesa viviamo molte fatiche – risponde con franchezza Federico –. Forse, oltre al contesto generale che ci accomuna al resto d’Italia, portiamo conseguenze di scelte fatte o non fatte in passato. Venti-venticinque anni fa forse c’erano intuizioni di preti che potevano essere coltivate maggiormente, anche in ordine ad una pastorale da ripensare, in merito pure alla configurazione parrocchiale. Siamo dentro una realtà comunque complessa e variegata, non trascurando il fatto che siamo minoranza e che vanno individuate insieme nuove priorità. Ci sono però in mezzo a noi preti in gamba, che potrebbero incidere maggiormente. Mentre vedo un rischio latente, quello di una certa stanchezza che porta un po’ a ‘salvarsi’ depistandosi, senza il coraggio adeguato da immettere nelle sfide che sono inedite e pungolanti”.
E con i giovani, praticamente tuoi coetanei, come ti trovi? “Devo dire che hanno un sacco di potenzialità – replica -. Rivelano una serietà che supera l’immagine che possono avere di loro gli stessi genitori. Sono molto fiducioso di questa generazione di giovani, a dispetto di tutti i pessimismi al riguardo. Vedo maggiormente in panne la fascia che va dai 35 ai 50 anni, persone un po’ alla ricerca di se stesse… Ovvio che con i giovani per fare sul serio occorre mettersi in gioco in mezzo a loro. Richiedono molto tempo ed altrettanta pazienza, pure per l’accresciuta fragilità che contagia alla grande. C’è da farsi interpellare dalle loro domande che… devono trovare risposte prima di tutto dentro di me. Anche per questi tempi dilatati nella pastorale giovanile, è necessario – a mio parere – compiere scelte che non costringano a ripartire daccapo troppo spesso…”.
La crisi delle vocazioni non è una novità. Secondo te cos’è che oggi frena o blocca su questo terreno? Il celibato, ad esempio…? “Non credo che sia il celibato lo snodo cruciale – conclude Federico -, anche perché oggi, facendo una provocazione sociologica, ci sono quasi più… celibi (magari single), in una vita più o meno casta, che non coniugati che restano uniti. Ma, no, a prescindere dalle battute, non è questo il motivo principale. Forse pesa il carico di impegni, che può logorare in prospettiva. Decisivo mi sembra il passo nella fede, credere in Gesù Cristo fino in fondo. Magari scoprendo che ci sono altri che ci hanno provato, che vanno avanti in questa direzione, che ce la mettono tutta. Indubbiamente qualcosa va pure riordinato nella nostra pastorale, trovando piste commisurate ai nodi di oggi, in cui, per esempio, non possiamo voler… salvare tutti a tutti i costi, privilegiando invece percorsi di testimonianza, in un contesto di cristianità ormai largamente perduta”.