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Trent’anni fa si spegneva una voce profetica: Michele Pellegrino

è importante, per quel che ha rappresentato nella cultura piemontese degli anni ’50-’60-‘70 e soprattutto per il profilo ecclesiale che ha connotato il cristianesimo pedemontano nel primissimo dopo-Concilio in una Torino operaia, ricca di fermenti ed intrisa di problemi

Marco Volpe

Indubbiamente fa parte di un’altra generazione. E a ricordarlo sono in particolare coloro che hanno i capelli grigi o non li hanno più in testa. Ma farne memoria, a trent’anni dalla morte, è importante, per quel che ha rappresentato nella cultura piemontese degli anni ’50-’60-‘70 e soprattutto per il profilo ecclesiale che ha connotato il cristianesimo pedemontano nel primissimo dopo-Concilio in una Torino operaia, ricca di fermenti ed intrisa di problemi. E’ il card. Michele Pellegrino, originario di Roata Chiusani, frazione di Centallo, impegnato prima nella diocesi di Fossano fino ad esserne, in tempi di guerra, giovanissimo vicario generale, poi come docente di letteratura cristiana antica all’Università di Torino, infine come arcivescovo, a sorpresa, nel ’65, proprio nel capoluogo piemontese a traghettare una Chiesa pressata da mille urgenze anche in chiave sociale. Giustamente – andando a rileggere quanto scriveva proprio trent’anni fa sulle pagine de “L’Unione Monregalese” il dott. Bartolomeo Martinetti, già sindaco di Mondovì ed ex-allievo di Pellegrino in Università – è da annoverare tra quelle figure di preti italiani, piemontesi, cuneesi che, prima e dopo la guerra, furono autentici “Padri della Chiesa”, con nomi che dicono tanto per chi li ha intercettati (o non dicono più granché a chi è venuto dopo) come i Montini, i Costa, i Bevilacqua, i Mazzolari, i don Bussi, i don Barra e, più vicino a noi geograficamente, i don Gasco, i don Roatta, i don Ferrua… capaci di creare oasi di cristianesimo adulto ed intelligente, oltre gli schemi e le consuetudini un po’ bloccate. E questa caratura indiscussa di intellettuale con una fede radicata nella storia controversa si è rivelata preziosa nel guidare la Chiesa torinese, nel condurla a “Camminare insieme”, come indicava il titolo di una fondamentale lettera pastorale costruita dal basso, con i sacerdoti, con i fedeli, con gli operatori pastorali, con la gente che voleva esprimersi e farsi coinvolgere. Erano gli anni delle lotte operaie anche aspre, erano gli anni della contestazione giovanile sopra le righe, erano gli anni del laborioso e delicato post-Concilio, sarebbero arrivati presto i duri anni di piombo… Ebbene per quegli anni problematici – annotava Memo Martinetti – “per quella stagione in crisi di cambiamento, ma piena di entusiasmo e di speranza, Pellegrino era un segno, oggi si direbbe un personaggio carismatico. In lui vedevamo il pastore che cerca di intessere un rapporto autentico con la comunità, l’ispiratore di una Chiesa attenta ai segni dei tempi, capace di andare incontro ad un mondo che stava sempre più allontanandosi, di esprimere in concreto una scelta per i poveri, anche se, in quel momento storico ed in quel contesto sociale, questo poteva voler dire riconoscere che la povertà era anche un fenomeno di classe, ed a Torino, specificamente, di classe operaia”. Insomma Pellegrino sapeva anche rischiare, in una fedeltà cristallina all’Evangelo ed ai Padri della Chiesa, che aveva studiato a lungo ed amato profondamente. Fino agli ultimi cinque anni della sua vita, in cui fu costretto al “sacrificio del silenzio” per via di una malattia che l’aveva pesantemente menomato. Un grande del ‘900, qui da noi. Da non dimenticare.   


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