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sabato 14 Giugno 2025     Accedi

We are ugly, but we have the music

Addio a Leonard Cohen. Il 2016 fa un’altra vittima di lusso

Marco Volpe

Questo 2016 sarà ricordato come un anno cruciale nei libri di storia su cui studieranno le prossime generazioni. E, dagli amanti della musica, sarà ricordato anche come un anno particolarmente sfortunato: ci hanno lasciato nell’ordine David Bowie, Glenn Frey degli Eagles, Maurice White degli Earth Wind and Fire, Keith Emerson, Prince, per arrivare, la settimana scorsa, alla scomparsa di Leonard Cohen. Superflua qualsiasi presentazione per il cantautore canadese, che a 82 anni è riuscito a dare alla luce lo stupendo You Want It Darker, intenso e struggente: un canto del cigno di inaudita bellezza, come solo i più grandi sanno fare. Di Cohen, poeta ancor prima che cantautore, tanto si potrebbe dire, partendo per esempio dalle ottanta strofe originarie di quell’Hallelujah che diventerà una delle canzoni più interpretate di sempre (straordinaria la versione di Jeff Buckley, datata 1994); si potrebbe altresì partire da una delle prime perle, Suzanne (dall’album d’esordio del 1967), ballata di una delicatezza e una profondità incommensurabili, o da Nancy, storia di una ragazza psichicamente instabile che Leonard aveva conosciuto a Montreal, emarginata sociale d’animo puro di cui molti abusavano, morta suicida a ventun’anni. Sono troppi i capolavori che meriterebbero il loro spazio in questo breve commiato, ma quello con cui intendo ricordare oggi uno degli artisti più influenti dello scorso secolo è Chelsea Hotel #2 (dalla pietra miliare New Skin for the Old Ceremony, 1973). La canzone parla di un curioso incontro di Cohen con Janis Joplin al Chelsea Hotel di New York (molto gettonato dagli artisti, per la cronaca: nelle stanze di quest’albergo, pochi anni dopo, Sid Vicious avrebbe ucciso la fidanzata Nancy Spungen). Il racconto del fortuito incontro tra i due, conclusosi poco dopo in un amplesso, diventa causa ‘occasionale’ per riflessioni universali e di disarmante profondità di cui i poeti sono capaci: al racconto insolitamente crudo di qualche dettaglio sul rapporto sessuale seguono versi di straordinario lirismo: lei se ne va, non si farà più sentire. Nessun “I need you”. Avrebbe preferito un uomo avvenente, ma ha fatto un’eccezione. Stringe i pugni, pensa a se stessa e a Leonard, ossessionati dalla bellezza di altri corpi, poi si sistema i capelli mentre si guarda allo specchio; sentenzia: “Never mind, we are ugly, but we have the music”. Non ti preoccupare, siamo brutti, ma abbiamo la musica. Dopo, nessun “I need you”, non ci penseranno nemmeno più molto. Chelsea Hotel #2 è una meravigliosa storia d’amore, d’amore universale. E’ la più sincera e viscerale somatizzazione della musica, di un certo tipo di musica, dicotomicamente legata alle parole, che con la scomparsa di Cohen ha indubbiamente perso uno dei suoi più grandi interpreti. Pochi altri, nella storia della canzone d’autore, hanno saputo ricamare versi di questo valore. 
Riposa in pace Leonard, (purtroppo) lassù sei in ottima compagnia.


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