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«Deportato nel campo di Meuselwitz: la notte di Natale del ’44 mangiammo mezzo cavolo e pane nero, per noi era una festa»

Aldo Rovere, oggi vive a Ceva, ma è nato a Paroldo nel 1924. Lo abbiamo incontrato. E ci ha rilasciato questa intervista.

Marco Turco

Aldo Rovere, oggi vive a Ceva, ma è nato a Paroldo nel 1924. Lo abbiamo incontrato. E ci ha rilasciato questa intervista.

Come iniziò la sua carriera militare?
Non ero mai uscito di casa. Mi chiamarono di leva per i primi 4 mesi, e poi mi raffermarono con i miei compagni. Ci diedero uniforme ed equipaggiamento nella caserma “Galliano” a Ceva dove dormimmo due notti, e quindi fummo inviati a Serra Pamparato, dove ci fermammo per circa due mesi per fare esercitazioni di tiro. Il mio tenente era sardo, e mi spronava a cercare di essere un buon soldato. Soprattutto ci controllava quando eravamo di guardia. Fummo trasferiti poi a Chiusa Pesio per circa un mese e quindi partimmo per Bolzano, nella conca della vallata.

Quando fu catturato, dove si trovava?
Ci catturarono l’8 settembre 1943, ero con Toiu Battaglia, e con mio cognato Felice Renna, classe 1923. Caricati sul treno, loro vennero portati in Austria ed io fui deportato a Konigsberg. Viaggiammo per circa un mese, fermandoci un giorno intero a Varsavia, dove ci diedero per la prima volta un pasto abbastanza corposo. Eravamo circa 60 in ogni vagone. Da Varsavia ci portarono a Konigsberg. Andavamo a lavorare al freddo, in condizioni davvero difficili, con indumenti precari, percorrendo circa 15 km. a piedi. Dopo due giorni dal mio arrivo mi rubarono la mantellina. Chiesi un cappotto e me ne venne dato uno francese. Nel Campo la vita era difficile.

Come eravate trattati?
I civili tedeschi ci detestavano. Eravamo sempre sotto controllo armato. I militari erano duri, ottimi tiratori. La notte di Natale del 1944 mangiammo mezzo cavolo ed un pane nero, ci avevano dato sette etti di pane nero. Era una festa. Carlo Ferro di Sale Langhe riusciva a prendere cibo durante le marce per andare al lavoro, due patate, cipolle, una zucca, tutto ciò che era commestibile. Lo divideva con me.

Riusciva a comunicare con i suoi cari?
A casa seppero che ero prigioniero, perchè dopo circa 5 mesi dalla cattura i miei genitori vennero avvertiti, credo dalla Croce Rossa. Non mi fermai sempre a Konigsberg, fummo inviati in paesi vicini, a Breslau, ad esempio, ove venni assegnato ad un muratore che nella Grande Guerra era stato fatto prigioniero dagli italiani. Parlava bene l’italiano.

Ricorda il momento della sua liberazione?
Konigsberg venne pesantemente bombardata dagli anglo-americani. Al suono della sirena correvamo tutti nei rifugi. Le strade diventavano un fiume di persone che cercavano di giungere in tempo al riparo dalle bombe. Arrivarono gli americani a liberarci. Ci diedero moltissime cose da mangiare, due di noi addirittura morirono per aver mangiato troppo tutto insieme. Ricordo che io riempii la mia gavetta con latte condensato. Gli sbriciolai dentro delle gallette e ne feci una zuppa. Mangiavo poco alla volta, sapevo che avevo lo stomaco chiuso, che si doveva riabituare al cibo. Gli americani erano molto organizzati ed equipaggiati, avevano moltissimi mezzi. Organizzarono il nostro rimpatrio. Addirittura si sparse la voce che ci rimpatriassero in aereo. Io avevo paura. Fortunatamente utilizzarono i camion ed i treni. Ritornai a casa il 21 luglio del 1945. Arrivato a casa, mi misi subito a lavorare, i miei genitori avevano bisogno di me.

Cosa le è rimasto?
Non solo la mia mente conserva ricordi della guerra, ma purtroppo anche il mio corpo: due anni di prigionia hanno causato problemi di salute. Sono qua, a raccontare ciò che è stato il Campo di prigionia, ciò che sono stati il freddo, la fame, la sofferenza, la lontananza da casa, sono qua a testimoniare che una memoria così importante per la nostra gente non deve essere dimenticata.


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