La speculazione edilizia
Quando pensiamo al Calvino degli anni ’50, la mente corre subito alla "Trilogia degli Antenati", alla svolta nel fantastico dopo aver raccontato con un neorealismo eterodosso le vicende della Resistenza, tra il Pin dei "Sentieri dei nidi di ragno" e i racconti di "Ultimo venne il corvo". Però c’è ancora negli anni ’50 un Calvino che giustappone il trittico – mai compiuto - delle “Cronache degli anni ‘50”, di cui uno resta incompiot e uno è la, relativamente nota, "Giornata di uno scrutatore", su cui magari torneremo, perché no, sotto elezioni.
Però, Calvino aveva una particolare predilezione per l'altro romanzo realistico del periodo, “La speculazione edilizia” (1957), la storia “in cui sento d’aver detto più cose”, ai cui personaggi avrebbe assegnato i suoi personalissimi Oscar. La storia è ambientata nella Sanremo del 1954 - la narrazione volge verso il termine quando il protagonista sente la notizia della morte di De Gasperi - ma curiosamente è composta nel 1957, quando nascevano i primi piani regolatori per arginare la crescita sregolata legata all'incipiente boom economico. Tra questi, tra l'altro, quello di Mondovì, fra i primi settanta piani regolatori italiani.
Lo spunto di partenza di Calvino è quindi una perfetta riflessione su quegli anni: l’intellettuale sanremese Quinto, che ha molti tratti autobiografici, è un disilluso scrittore di sinistra che, uscito dal partito - come Calvino, che uscirà definitivamente dal PCI di fronte al suo appoggio all’invasione sovietica dell’Ungheria, nel 1956 - decide di adeguarsi allo spirito dei tempi e avviare anche lui una “speculazione edilizia”, nel senso tecnico di operazione edile finalizzata al guadagno (un termine di per sé neutro, senza ancora la connotazione critica che ha assunto oggi).
Quinto si allontana così dagli antichi compagni, che vede come fumosi residui parolai del passato, persi a discutere se consacrare i loro evanescenti giornali a Freud o a Marx. Invece, si lega all’imprenditore del mattone Caisotti, ligure dell’entroterra - a tratti sembra abbastanza vicino a una certa caricaturale visione di figure piemontesi – furbo e spregiudicato sotto una falsa bonarietà contadina. In questo modo Quinto esce da un vano labirinto di parole per entrare nel labirinto ben più materiale della città che sale, caotica e disordinata, a cui pare rimandare anche l'astratto disegno della copertina originaria (vedi sopra). Non rivelo, ovviamente, come si conclude la storia, lasciando al lettore il piacere di scoprire l’evolversi di questa Sanremo all’avvio di un boom economico che però lascia già vedere anche le sue contraddizioni.
Il volume si concede anche una digressione nel cinema sullo sfondo, con Quinto coinvolto come sceneggiatore nella rinascente scena di Cinecittà; colpisce il giudizio positivo - da un Calvino uscito sì dal partito comunista, ma ancora legato a quel clima - su Alcide De Gasperi, ritenuto migliore dell'Italia furba e indifferente alle regole. La sua morte assume quindi un senso simbolico agli occhi del protagonista e dell'autore, collegato all'avanzata disordinata di una pigra borghesia di provincia. Insomma, un Calvino da riscoprire, questa Liguria da vacanze cuneesi così vicina nello spazio, così lontana ormai nel tempo.