Split: Shyamalan, il ritorno a sorpresa.
Split (2016) di M. Night Shyamalan è a suo modo un film interessante. Shyamalan, regista hollywoodiano ma di origini indiane, si era imposto infatti all’attenzione del pubblico col famosissimo Il sesto senso (1999). Il film riprende una variazione delle storie di fantasmi ormai divenuta un archetipo, che ha il suo testo seminale in Giro di vite (1898) di Henry James. Il pubblico resta comunque colpito dal twist della storia, che Shyamalan indubbiamente gestisce bene a livello drammatico, e da quel momento in poi Shyamalan diviene “il regista del colpo di scena finale”. In questo modo è costruito anche il suo secondo film di grande successo, Unbreakable (2000), che va a rileggere in modo originale il mito dei supereroi, che iniziavano in quegli anni il boom della loro fortuna cinematografica (grazie allo sviluppo degli effetti speciali digitali, secondo alcuni; per il bisogno di nuovi eroi dopo il trauma dell’11/9/2001, per altri). Se non l’avete visto, tra l’altro, dopo questo film sarete costretti a vederlo (e non aggiungo altro per evitare spoiler): e a questo meccanismo riconducono Signs (2002), The Village (2004), gli ultimi due successi prima di un certo graduale abbandono di questo suo marchio di fabbrica, andato in parallelo con un declino del regista perlomeno nel gradimento del pubblico.
Split è quindi un thriller basato, come si evince fin da subito, su un inquietante serial killer dalla personalità multipla: non solo il classico “tema del doppio”, ma una mente scissa in ventiquattro personalità distinte. A rendere più inquietante il tutto è il fatto che la trama sia, molto liberamente, ispirata a una vicenda reale di cronaca nera, il caso di Billy Milligan. Il disturbo dissociativo multiplo, emerso nel corso del processo, venne profondamente dibattuto, creando un indubbio interrogativo pirandelliano (non è per ora il tema su cui si focalizza Shyamalan): può una personalità essere ritenuta colpevole del delitto commesso da un’altra, se il disturbo è accertato (ovviamente, l’accusa lo contestava) e la personalità colpevole si dà alla macchia mentalmente? Una sorta di Uno, nessuno e centomila dark, insomma, in cui Shyamalan tenta una variazione sul suo tema del “finale a sorpresa”: non una singola svolta ma più svolte minori, consecutive, non tanto un completo rovesciamento ma più una deviazione dalle aspettative del lettore. Una volta concluso il film, come negli altri casi, viene l’interesse di riesaminarlo alla luce delle nuove informazioni colte nel corso della prima visione. La conclusione lascia molto in sospeso: può far pensare a un finale volutamente aperto, o più probabilmente, apre a un possibile sequel, e a una sorta di universo narrativo comune tra i film del regista.