Thibault Noally e l’Academia Montis Regalis. Concerto per due compositori ed Ensemble.

La prima cosa che colpisce l'ascoltatore, che immaginiamo al suo primo incontro con questa musica viva, non catturata nella statica e un po' appiattita fotografia di una registrazione, è la sua vitalità, la sua freschezza. È un torrente di note che lo investe, un moto perpetuo, un continuo caleidoscopio di colori, un viaggio orizzontale in un teatro dalle quinte infinite, dalle scene cangianti e mutevoli, ed è di una modernità sconcertante. Non è un caso se Yngwie Malmsteen, uno dei chitarristi metal più noti, abbia proprio nel repertorio barocco la sua fonte di ispirazione principale, così come tanti altri musicisti rock, in diversa misura. La maggioranza delle persone ha un'idea sbagliata di quella che è la musica barocca, un'idea che deriva da certe prassi esecutive del passato, da un modo troppo rigido di leggere, intendere, eseguire le partiture del settecento e che, pur restituendone il suono e le finezze armoniche, ha troppo spesso soffocato le scintille vitali che la animano e che ancora oggi sprizzano con forza, quando un gruppo di musicisti capaci la fanno rivivere. La musica barocca è interpretazione, vitalità, entro certi limiti e seguendo alcune regole precise, i compositori affidano all'esecutore il compito di aggiungere abbellimenti, improvvisazioni, dinamiche, calore alla loro musica. In questa dimensione in particolare, credo il lavoro di Thibault Noally, che ha diretto i giovani nell'Accademia Montis Regalis nei due concerti di San Michele e di Mondovì Piazza dello scorso fine settimana, sia stato eccezionale. I ragazzi hanno suonato per un'ora e mezza, in piedi, un programma ricco di musica per archi e cembalo, accostando due tra i principali compositori del settecento, due maestri dello stile concertante italiano, che soppiantò il lullismo e divenne il verbo musicale che dominò buona parte del secolo. Uno ci è familiarissimo: Antonio Vivaldi, uno dei più grandi compositori della nostra tradizione, autore dell'altra grande Primavera del patrimonio artistico italiano. Diavolo e acquasanta, uomo di chiesa dalla chioma fulva e ardente, come lo spirito brillante con cui affrontava la vita e la musica. L'altro è comunque noto, ma per lo più ad un pubblico più specializzato: Georg Philipp Telemann. Un musicista dotato di una creatività vulcanica e inesauribile, e dotato di occhi e orecchie acute e recettive. La sua lunga vita attraversa l'intero secolo, con tutte le sue fasi e tendenze musicali, di cui Telemann riuscì a restare sempre al passo, interpretandole sempre con grande modernità e acume. Solo negli ultimi anni della sua vita cedette rovinosamente il passo al tempo, pagando il prezzo di un oblio che avvolse per molti anni la sua musica.
Altro elemento di sorpresa per l'eventuale neofita, capitato nella meravigliosa sala Ghislieri sabato sera, la durata e l'agilità dei brani. Quando si parla di musica classica siamo ancorati al titanismo delle grandi sinfonie, ai lunghi movimenti, alle ore impiegate da Beethoven e Mahler, ai viaggi interminabili del romanticismo, alla ricerca di nuovi sterminati paesaggi musicali, nel tentativo di spingersi oltre i confini armonici e acustici conosciuti. Il settecento però è fatto di musica di corte, rapida, una collezione di pezzi strumentali veloci e dal ritmo incalzante, concerti che si sviluppano nell'arco di una decina di minuti nei loro tre movimenti canonici. Musica scritta per divertire, stupire, meravigliare il pubblico. 250 anni dopo colpisce ancora nel segno, grazie al lavoro di Noally e dei ragazzi dell'Accademia; i giovani musicisti che studiano e lavorano tutti i giorni proprio per togliere le ragnatele che il tempo ha fatto cadere su quelle antiche partiture per restituircele in tutta la loro freschezza e la loro ricchezza di colori. Noally è un nome pressochè sconosciuto ai più, ma è uno dei più importanti violinisti barocchi d'Europa, primo violino e (spesso) direttore dell'orchestra parigina "Les Musiciens du Louvre". È uno di quei nomi che, in una contesto come quello torinese, avrebbe riempito un teatro. Averlo a Mondovì è un onore che pochi hanno colto, visto che la sala era piena per metà di un pubblico di affezionati (forse i più hanno approfittato della gratuità della serata di San Michele). Nessuna suoneria, nessun rumore molesto ha sporcato le architetture del prete rosso e del fecondissimo tedesco. L'ensemble, composto da tre violini primi (Ignacio Ramal, Angela Moro Saura, Mario Gomez Brana), tre secondi (Jamang Santi, David de Jesus Torres Rodriguez, Xavier Sichel), due viole (Anna Wieczorek e Anna Luiza Aleksandrow), due violoncelli (Marc Alomar e Maximiliano Segura Sanchez), un contrabbasso (Alberto Jara) e un clavicembalo (Nicolò Pellizzari) oltre allo stesso Noally, con intesa perfetta, ha reso piena giustizia alle partiture, curando con molta attenzione e finezza le sfumature, i giochi sul tempo, il continuo alternarsi delle dinamiche piano-forte, l'artificiosa spazialità degli echi e dei richiami, in cui le frasi musicali sembrano allontanarsi scalando di tonalità in tonalità, gli scambi tra le voci, i giochi contrappuntistici, e il solido sfondo, retto dai colpi d'archetto dei violoncelli, dal contrabbasso e dagli arpeggi del cembalo. Poi il solismo, di cui Vivaldi fu uno dei maestri più grandi: Noally si è ritagliato alcuni momenti lasciando molto spazio ai giovani solisti dei violini primi che hanno fatto al meglio il loro lavoro, senza sbavature. Il programma, che alternava con cadenza quasi perfettamente regolare composizioni di Vivaldi a quelle di Telemann, proponendo agli ascoltatori suggestivi accostamenti, prevedeva parti di notevole complessità tecnica, specie per violinisti giovani, pur talentuosi. La serata ha restituito un saggio perfetto (persino nella sequenza dei brani) dello stile musicale che ha dominato il settecento e che ha la sua essenza nel significato più antico e e tecnico del termine concerto: ovvero lo stile compositivo in cui si ravvisa il primo e più spontaneo nucleo della moderna sensibilità tonale. Un termine che è un ossimoro, giacché può essere letto come derivato da concertare, ovverossia combattere, o conserere, unire, collaborare. Il concerto è un modo di organizzare e intendere la composizione come un dialogo tra voci, tra masse di strumenti. Queste possono contrapporsi, in un ideale contrasto, una guerra di suoni, oppure armonizzarsi in un dialogo, in una celeste corrispondenza di amorosi suoni. Questa drammatizzazione delle parti musicali, evoluzione strumentale dei mottetti vocali e delle cantate sacre in cui le masse corali si rispondevano a vicenda, resterà una premessa imprescindibile per tutta la musica scritta successivamente, radice profonda e ormai quasi inconsapevole, di tutta la sensibilità musicale europea. L'ensemble ha aperto la serata con due concerti per due violini di ciascuno degli autori (RV 110 in do maggiore per Vivaldi, TWV 52: E4 in mi minore per Telemann) per proseguire con il concerto in sol minore RV 326 del veneziano e la sinfonia tratta dal concerto in do maggiore a sua volta tratto dall'opera Der Neumodische Liebhaber Damon TWV 51:C3 del tedesco. Poi una sequenza "incrociata" di brani con un estratto, il concerto numero 8, dall'Estro Armonico di Vivaldi, il concerto Polonais e il concerto in la minore per violino e orchestra di Telemann, e finale con il concerto in la maggiore di Vivaldi.