Marco Paolini e il futuro prossimo. Studio per Album “Numero Primo”.

Le premesse non sembrano proprio le più indicate per una serata di teatro all’aperto, pur in una cornice impareggiabile come quella dell’Horszowski di Monforte d’Alba. Una scarica di pioggia si abbatte sul paese circa un’ora prima dell’inizio e, per larga parte dello spettacolo, imperversa un vento fastidioso, che abbassa le temperature della bella stagione all’alba del suo declino. Marco Paolini, tuttavia, è abituato ad affrontare, oltre che la platea, anche le intemperie. Chi lo segue lo sa, visto che spesso e volentieri si esibisce in location suggestive, all’aperto, e capita spesso che i suoi spettacoli siano interrotti dal maltempo: basti pensare a I-Tigi a Gibellina, in cui a un certo punto, dopo che il monologo è stato disturbato dal vento in più punti, l’attore e il pubblico sono costretti a rifugiarsi in una saletta per poter continuare. Una delle cose che più impressionano l’uomo comune, pensando a quello che fa Marco Paolini è la sua solitudine. Paolini è solo davanti al pubblico. Sale sul palcoscenico davanti a teatri gremiti fino all’ultima poltrona completamente solo. Il più delle volte non ha altri attori, ad appoggiarlo, non ha spalle. Non ha nemmeno scenografia: in teatro, a volte, sono le cose a farti compagnia, ad appoggiarti. Stanno lì, enti su cui poter costruire un monologo, dei gesti, un dialogo in cui il silenzio della risposta si fa eloquenza nascosta. A Monforte d’Alba, nella serata speciale per Attraverso Festival, non c’era scenografia se non l’auditorium. Non c’era arredo se non uno sgabellino di legno e il microfono sulla sua asta, che non avrebbe dovuto esserci. Il vento ha impedito l’utilizzo dell’archetto, che normalmente l’attore preferisce, perché lo lascia libero di muoversi. Solo e inchiodato al centro del palco. Eppure Paolini è riuscito ugualmente a ipnotizzare il pubblico, con la storia che aveva da raccontare, e con un’idea di teatro talmente nuova che forse non è nemmeno ben definita nella testa del suo ideatore.
Numero primo infatti non è uno spettacolo compiuto, almeno stando a quanto l’attore veneto si sforza di comunicare nei comunicati, nelle locandine e anche nelle spiegazioni orali. Fa parte del genere degli “Album” la forma di racconto teatrale tra storia, impegno, narrazione e vissuto personale che Paolini ha inventato e perfezionato nella sua carriera, ma invece di essere una storia passata, e quindi finita e conchiusa, è una storia futura, e un racconto che non ha una sua precisa definizione. È una specie di esperimento, provando a ragionare su un futuro non troppo lontano, che potremmo trovarci a vivere tra qualche anno. Un futuro in cui gli studi, che attualmente sono una delle frontiere più calde dell’innovazione tecnologica, sull’intelligenza artificiale e sulla costruzione di macchine in grado di interagire e comunicare autonomamente con l’uomo, sono avanzati. In questo contesto, e nella provincia veneta, un uomo si innamora di una donna. I due si conoscono su una chat online, ma non si sono mai visti. E non si vedranno mai. Lei gli confessa di avere una malattia che non le lascia scampo e un figlio, Numero Primo. Gli chiede di occuparsi di lui, e lui è tanto innamorato che accetta. Così, in una Gardaland diventata una specie di metropoli del divertimento, incontra il ragazzo su una giostra e inizia ad accudirlo. La storia comincia così, sarebbe un delitto andare a svelare come continua e come non finisce. Basti sapere che fa ridere, piangere, emozionare, intriga, fa arrabbiare, inquieta, intristisce, rallegra... Tutto questo, chi conosce Marco Paolini, può facilmente immaginarlo. Presto questa storia sarà in libreria, la si potrà leggere. L’ha scritta lui stesso, insieme a Gianfranco Bettin e si intitola "Numero Primo". Il secondo tempo dello spettacolo, o il secondo spettacolo, a seconda dei punti di vista, è tutto dedicato alla riflessione e alla spiegazione. Non c’è più un copione, non percepibile almeno. Paolini va a ruota libera e spiega, racconta i motivi che lo hanno spinto a mettere in scena questa storia, così stravagante rispetto a quelle che ha raccontato finora nella sua carriera. Racconta le sue sensazioni, quando durante i suoi spettacoli nei teatri, vede ogni tanto la gente distratta dal cellulare.
Dal palco la platea è come un grande fondale buio, in cui appaiono di tanto in tanto, molti volti blu, illuminati dagli schermi. Racconta non la sua paura nei confronti della tecnologia, di cui ammette anzi di subire il fascino (“quando hanno iniziato a uscire i cellulari dicevo “non ho bisogno di quella roba lì”. Ora senza non mi muovo di casa), ma il suo timore nei confronti del gap sintomatico che c’è tra cultura e tecnologia e che è sempre più accentuato. Non c’è un dibattito: le novità vengono prese e accettate, senza alcuna riflessione. Compito della cultura sarebbe riflettere sulla tecnologia e sui suoi progressi, valutarne le implicazioni e, quando è il caso, rifiutare. Non chiudersi al nuovo ma operare scelte consapevoli, razionali. Il rischio è assuefarsi a qualsiasi novità in modo acritico, finendo così, senza accorgersene, per instradarsi verso una deriva etica che rischia di trasformarci in qualcosa che non avremmo mai voluto diventare. L’esempio chiave è quello di un bambino che, negli Stati Uniti, potrebbe essere salvato da una brutta malattia con una modifica al genoma. C’è un ampio dibattito sull’opportunità di farlo o meno. Nel caso specifico si sceglie di salvare un bambino, chi potrebbe non essere d’accordo? Eppure da questo caso una deriva potrebbe portare all’infante “costruito” su misura secondo i desideri dei genitori, quella che in altri tempi è stata chiamata eugenetica. Il suggerimento di Paolini non è certo quello di rinunciare alle opportunità di salvare e migliorare vite, al contrario è quello di stimolare un dibattito su questi e sugli altri problemi posti dalla tecnologia, in modo da capire, in sostanza, cosa ne vogliamo fare. Proprio per fare questo pensa a un teatro che diventi una specie di centro di ricerca, un luogo dove condurre esperimenti in cui gli spettatori ricoprono insieme il ruolo di cavie e quello di cittadini informati, per stimolare un dibattito civile atrofizzato nella vita quotidiana e sterilizzato dalla enorme mole dei social.