Risonanze poetiche: il canto netto dell’essenziale di Andrea Donaera
Andrea Donaera è nato nel 1989 a Maglie (Le) e vive tra Bologna e Gallipoli. È laureato, con una tesi su Elio Pagliarani, in Scienze della Comunicazione presso l’Università del Salento, dove è segretario del Centro di ricerca “PENS: Poesia Contemporanea e Nuove Scritture”. Dirige la collana di poesia “Billie” della casa editrice ‘Round Midnight ed è il direttore artistico di “Poié”, Festival della Poesia di Gallipoli. Ha pubblicato diverse raccolte di poesia. La sua è una scrittura di immagini vive, dove protagonisti sono le figure famigliari, gli oggetti del domestico, del quotidiano, i luoghi che li accolgono (anch'essi famigliari): a raccontarli è una musica naturale del verso, che quasi emerge spontanea dalla realtà. Nell'alternarsi del respiro (più o meno ampio a seconda delle fasi), si riconosce netto il suo incedere camminando, come in un canto scandito della vita, sempre semplice ed essenziale nella forza della sua narrazione.
Da questo lato è il tramonto, l’alba ci è lontana, non ci riguarda,
quasi. Il calare è nostro, e l’accompagnarlo fin dentro l’acqua,
lo vedi il come, qui: lo vedi, mai ti ho vista sorgere io,
in quel tramonto ti ho – presa di petto, onda alta di scirocco
io, sole sbatacchiato tu. Posto che mai si ferma e mai crede
d’esser bello davvero, bello e basta, crosta sulla ferita,
bella così, riparo, questa terra sei tu, che cicatrizza.
Da Tetrakis – Tre voci per un traversare (Kurumuny, Calimera, 2017)
*
C’è rifugio nel misticismo grezzo
che suscita il tramonto. Tramortito
vi lascio tutto – e questo sa di fine –
vecchi alle panchine di Piazza Candia,
bimbi aspiranti Del Piero giù al porto,
e pensionati all’ombra delle chiese.
Lascio il giallastro della Cattedrale,
la sabbia sporca della Purità,
e lo sgretolarsi delle fontane.
L’ideale dell’olio buono, lascio,
dei calamari ripieni, dei gamberi.
Questo nostro rifugio. Questo nostro
amarci di pietra e terra. Gallipoli,
cara, quanto sai di fine, così
simile a una Madonna che mai
appare.
Da Occhi rossi (‘Round Midnight, Campobasso, 2015)
*
Prima di noi i padri, i nonni, le madri
tra le dita il giallo vago dei muri
e stamattina anche la guida che
mostra la pietra porosa, la tocca,
è farinosa, la mano sporcata,
il turista fa foto
ma non alle pareti:
alle dita impolverate – a com'è
che il tempo passa qui:
un secolare e fine sgretolarsi,
alla fine (alla terra) mescolarsi.
Inedito, 2015
*
Dal Ventiquattro all’Uno era un da fare sempre, le nostre madri più stanche,
i nostri padri ricaricati di tredicesime fumavano, chi non fumava beveva, noi
eravamo in qualche modo uniti, dal Ventiquattro all’Uno tutto un da farsi,
tutte le sere le carte, i fagioli, le regole, le monetine, le tovaglie, le briciole,
non avremmo più ricordato niente, nemmeno l’epica dell’anello perduto,
l’anello di chi, non si ricorda nessuno, un anello perduto nel lavandino, era
scivolato, poi recuperato, sporco di qualcosa, verdure bagnate, pelle di pesce,
era un ridere inorridito, la madre stanchissima piangeva di schifo e sfortuna.
Inedito, 2017
Cos’è per te la musica della poesia?
C’è un sentore, nella poesia, sempre. Non soltanto nella grande tradizione italiana, in cui le funzioni metriche forniscono elementi ritmici (e non solo) variegati, garantendo la meraviglia dell’intreccio musica-poesia, ma anche nelle forme di poesia che si sono sviluppate nel Novecento, in cui nuovi metri si sono proposti, rimodellando i metodi passati o introducendone di nuovi (Ungaretti prima, poi i versi dilatati e sincopati delle Neoavanguardie). E, personalmente, anche nelle poesie che meno si affidano alla “musicalità”, al metro, rintraccio sempre un flavour, cioè: “questa poesia mi sa di quella musica”. Penso a certa poesia di Fiori, che sembra racchiudere offuscati suoni dark jazz; penso alla triste eco blues che sento nell’ultimo Porta. Queste ovviamente sono esperienze estremamente personali, marginali e a loro modo intime, che difficilmente possono trovare un riscontro condiviso: ma la musica della poesia credo sia anche questa, anche questo prescindere dalla sua musica interna, tecnicamente immessa in lei dal poeta.
La lettura (ad alta voce) del testo poetico: qual è secondo te il rapporto della voce col testo e come consideri il tuo “modo” di leggere?
Leggere con la propria voce i propri testi è importante, molto – per il poeta, per il lettore, per l’ascoltatore, per la poesia stessa. Certamente molti poeti, durante le loro letture, allestiscono fin troppo la loro postura da poeta, creando una scena, esagerando un atto performativo. E questo per me è disturbante, mi sembra un grave sintomo di una perdita di autenticità che, nel panorama poetico attuale, non possiamo permetterci. Il mio caso, poi, è stato (è) strano. Per molto tempo mi sono rifiutato di leggere ad alta voce i miei testi – non solo in pubblico, anche da solo: far uscire le poesie dalla dimensione scritta, visiva, mi dava un senso sgradevole, di imbarazzo, di nudità per nulla liberatoria, dimostrativa di nulla. Soltanto da circa quattro anni ho iniziato a leggere a voce alta, anche in pubblico. Fino ad allora mi servivo di attori che però, seppur bravissimi, non avrebbero mai potuto dare il giusto senso “acustico” alle cose scritte da me. Spinto da amici e da opinioni di altri poeti (convinto specialmente dalla particolarità che avrebbero assunto le mie poesie lette con il mio accento salentino, nel mio modo di parlare), mi decisi a partecipare in prima persona ai reading, leggendo le mie cose. Le prime volte fu un disastro: leggevo velocissimo, a voce bassa, mangiando le parole, con la foga di volere andare via dal microfono; oggi la situazione non è molto diversa. Ora faccio più attenzione, provo a leggere in modo più scandito, provo a sottolineare il ritmo e la metrica, ma comunque resta sempre quel timore: «Sto annoiando chi mi ascolta, mi devo sbrigare a finire e ciao», penso costantemente. Questo perché, a ogni modo, sento la mia poesia davvero viva soltanto nella sua versione scritta, letta.
Come definiresti o descriveresti la poesia e il suo rapporto con le altre arti?
Come per qualsiasi altra arte, i rapporti che intercorrono tra la poesia e altro vanno sviscerati casisticamente, di volta in volta. Secondo me non è realmente possibile fare un discorso generale sul rapporto poesia-musica o poesia-cinema, ma bisognerebbe sviluppare un discorso caso per caso: il rapporto poesia-teatro di Pasolini è estremamente diverso da quello di Pagliarani o De Filippo, per esempio. E così via.
Sei una delle voci più forti che il Salento in questi ha anni dato alla luce e cresciuto. La tua terra torna nelle tue raccolte: torna Gallipoli, torna la poesia salentina (penso all’omaggio a Vittore Fiore), torna anche la forza assolata del sud, che resiste oltre tutto, anche nella disperazione. Sei anche tra i fondatori del “Centro di ricerca PENS: Poesia contemporanea e Nuove Scritture – Unisalento” di Lecce. Puoi raccontarci del tuo rapporto con il Salento e di questa tua importante esperienza?
Quello con il Salento, per me, è un rapporto casuale: lì sono nato, cresciuto, lì ho imparato uno stile di vita (e di morte), ma non è un posto che avrei scelto, non è un posto che sento accomunato a me come per un richiamo di un destino. Altrove sarei cresciuto diversamente, ma il legame con un qualsiasi altrove sarebbe stato il medesimo, perché credo fortemente nel congiungimento solido con i luoghi e con la realtà circostante come caratteristica fondante di un’esperienza umana – e quindi artistica. Il Salento è un posto bellissimo e orrendo. Viverci, crescerci, è completamente altra cosa rispetto al passaggio occasionale che in molti svolgono: viverci, crescerci, permette di esperire quotidianamente, senza accorgersene quasi, tutto l’orrido che criminalmente avvolge queste terre (un ulivo bruciato per far posto a un gasdotto), ma permette anche di vedere la bellezza concreta, autentica, palpitante, di un esistere in una periferia del mondo che, senza rendersene conto, è baluardo di modi di vivere e pensare quasi del tutto smarriti in qualsiasi altrove (una madre bianca, in un cortile, su un tavolaccio di legno impasta pranzi e mescola sughi per una domenica piena di figli che tornano giù). Con i processi culturali, poi, come si può immaginare (e vagamente si intuisce), è tutto estremamente complicato – data l’assenza non solo di istituzioni realmente interessate a investire in quell’ambito, ma anche a causa della pesantissima assenza di una vera utenza, di persone interessate ai valori formativi che l’azione culturale può fornire: lì nel Salento si muore di fame, si muore di mancanza di lavoro, di mancanza di case, e quindi come si può chiedere a un trentenne, che lotta ogni giorno per essere qualcuno nel mondo, di partecipare a cuor leggero a un’esperienza, ad esempio, letteraria? Eppure il PENS è nato, grazie alla volontà inesausta di un gruppo di studenti e alcuni docenti illuminati e sensibili. Esistiamo da poco più di un anno, ci stiamo sviluppando come un osservatorio interessato e curioso, come una realtà desiderosa di creare una rete utilizzando lo studio della letteratura come collante tra studenti ma anche tra fasce sociali. Ci proviamo, e vediamo.
Oltre alla poesia, hai scritto molto per il teatro e ti dedichi anche alla musica. Dove affonda questa ampiezza così ricca dello sguardo? Quanto sono tra loro connesse e necessarie queste varie “parti” che ti abitano?
Si tratta di tre tipi di urgenze espressive. Diverse, sostanzialmente staccate, unite solo dal fatto che ad avercele sono sempre io. La musica, specialmente, è molto slacciata dal resto: affondo l’esperienza musicale nell’immaginario che costitutivamente ha formato la mia personalità durante l’adolescenza, plasmando parametri estetici e di gusto dei quali sono molto orgoglioso. Suono heavy metal, ascolto quasi soltanto musica metal, e lo farei a prescindere dalla tensione che ho verso la letteratura. I due piani non interagiscono quasi mai – se non in modo quasi subliminale: ad esempio il nome del mio gruppo è Serial Vice, un richiamo al «vizio assurdo» pavesiano. La scrittura teatrale è invece una sorta di alternativa alla poesia. Un’alternativa faticosissima, perché mi richiede grande sforzo allestire una drammaturgia che non sia semplice narrazione di una storia che ho in mente. A ogni modo concepisco la scrittura teatrale come un processo sì di scrittura, ma costantemente legato alla dimensione performativa. Infatti preferisco curare la regia dei lavori che scrivo: e dunque anche in questo ci allontaniamo dalla poesia, perché usciamo dalla dimensione di pura scrittura, entriamo in dinamiche e processi che hanno a che fare con un piano concreto, fattivo. La poesia, però, resta l’arte più adiacente a me, sebbene non credo mi sarà mai possibile sentirmi chiamare «poeta» e non provare un imbarazzo fortissimo. Parafrasando un intervento di Vinicio Capossela: sono un animale, per questo mi esprimo in versi.