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martedì 10 Dicembre 2024     Accedi

Come sono fuggito ai miei sequestratori: ’78 Vai piano ma Vinci

Il rapimento di Pier Felice, raccontato in un docu-film diretto dalla figlia regista Alice Filippi. Un documento unico per vicinanza affettiva e cura del dettaglio, presente nella cinquina che si giocherà il David di Donatello come miglior documentario.

Giovanni Rizzi

Notte tra il 27 e 28 giugno 1978, Pier Felice Filippi campione di rally e figlio di un importante imprenditore monregalese, viene rapito davanti alla sua abitazione a Mondovì. Comincia un periodo di reclusione all’interno di una mansarda in un caseggiato nel savonese, i sequestratori sono un gruppo della ‘ndrangheta ligure. La famiglia riceve la prima richiesta di riscatto, 3 miliardi di lire. Passano i giorni e prosegue la prigionia, la famiglia non riesce a raggiungere la cifra per il riscatto. I sequestratori prima riducono la richiesta poi non si fanno più sentire. 12 settembre: sfruttando la distrazione e il sonno dei suoi carcerieri Filippi riesce a mettere in atto il suo piano di fuga. Nella notte fugge dopo 76 giorni di prigionia.

Questi sono i fatti, la fredda cronaca che nel racconto documentaristico della regista e figlia del protagonista si sciolgono dalla stretta sostanza della avvenimenti  nell’emotività intensa del racconto. Partendo da chi l’ha vissuto in prima persona, per poi allargarsi ai suoi cari, familiari e amici, nelle cui parole di uno di esso si evoca la frase che vale il titolo del film: Vai piano ma Vinci. C’è molto più di quello che sembra in questa affermazione, che suona come un ossimoro, per chi della velocità ne fa attitudine, come pilota di rally, ma che è di emblematica efficacia per descrivere la parte fulcro del documentario, la fuga dalla prigionia. Frutto di pazienza e movimenti controllati, misurati, una corsa verso la libertà che ha bisogno della sua prudenza. Fin da subito viene chiarito l’esito felice della vicenda, le prime parole che possiamo ascoltare sono dello stesso interessato. Permettendoci di comprendere che il film non si sarebbe soffermato solamente sulla parte di lacerante attesa, ma che avrebbe focalizzato l’attenzione sulla parte meno conosciuta della vicenda, la fuga di Pier Felice dai suoi rapitori. Una scelta convinta e giusta questa, motivata dal fatto che gli avvenimenti sono molto noti e indimenticati nella realtà locale e non solo. Una realtà di paese, tranquilla, persino troppo lontana dal mondo che conta, distante persino dal suo tempo: il ’78, gli anni di piombo, il terrorismo, i rapimenti. Ecco perché risulta ancora più assurda quella esclamazione “Hanno rapito Filippi!” che vola di casa in casa, passando sui tetti delle abitazioni, nei vicoli, fino ai tornanti che collegano le borgate: terreno di allenamento per Pier Felice.  Quelle le strade che sono la sua passione, e che ora lo portano lontano dagli affetti.

Velocità e lentezza, attesa e dinamismo, il documentario gioca su questi due contrasti. Cominciando dalla fidanzata, meccanicamente impegnata nei preparativi dell’imminente matrimonio che avrebbe dovuto essere, persa febbrilmente in un stato quotidianità onirica. Oppure dalle drammatiche conversazioni telefoniche tra i rapitori e il padre, che possiamo ascoltare nei nastri originali del periodo montati nel film. E nella voce degli amici in cui traspare incredulità, ma anche sicura speranza, c’è chi afferma che non ci sono dubbi: “Pier Felice tornerà”. Già perché i sequestratori hanno fatto male i loro conti, non solo sopravvalutando la disponibilità economica della famiglia, ma soprattutto sottovalutando l’arguzia e la tenacia di Filippi.

Quei tornanti percorsi in allenamento, Pier felice c’è li ha stampati nella mente, tanto da ripercorrerli a memoria nel tragitto al buio nell’auto dei rapitori. Un’attenzione ai particolari che comincia fin dai primi istanti del sequestro, questa peculiarità ci aiuta ad entrare all’interno della sua dimensione, e in quella del documentario. Troppo importanti i singoli frammenti della che compongono la vicenda, minuzioso dev’essere il lavoro di ricostruzione, fino a spingersi a filmare nei medesimi luoghi dove ha avuto svolgimento il rapimento.

L’ossimoro diviene ora metafora,  la corsa veloce per antonomasia, è ora lenta, riflessiva e provata. Per raggiungere la vittoria a volte occorrono lentezza e prudenza. Una vittoria che non può che avere una data nel destino, il 12 settembre, che portò via due anni prima Giancarlo, fratello di Pier Felice, e che ora deve restituire qualcosa alla famiglia. Quella era la notte giusta, e se la fuga è diventata racconto, ogni sequenza dev’essere curata nei minimi dettagli, perché ognuno di essi ha portato Pier Felice ad essere di nuovo qui, tra i suoi cari, nella sua comunità. Quella che per scelta registica ha prestato i volti ai personaggi coinvolti, anche a quello di Pier Felice, un valore aggiuntivo ad un lavoro che è un puro concentrato di trasporto emotivo e lucidità.


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