America a tinte pulp: 7 sconosciuti a El Royale
TRAMA
Camera d’albergo, un uomo nasconde del denaro sotto il pavimento poco prima di venire di essere ucciso. Dieci anni dopo al lussuoso e decadente hotel El Royale giungono nuovi ospiti: la cantante Darlene, un sacerdote, un rappresentante e una misteriosa donna. Siamo in bassa stagione, l’albergo è vuoto, e ad accoglierli c’è il solo concierge tuttofare Miles, che illustra agli ospiti la particolarità della struttura: la possibilità di alloggiare in camere di due differenti stati, in quanto l’hotel è costruito sul confine esatto tra Nevada e California. Ma è proprio durante l’assegnazione degli alloggi che tra gli ospiti cominciano a serpeggiare tensioni e sospetti.
https://www.youtube.com/watch?v=e0i9WTZQzZU
Il successo della California e l’azzardo del Nevada: esattamente sul confine di questi due stati sorge l’ albergo El Royale. Punto d’appoggio per chi tenta la sorte nei casinò di Las Vegas o sogna le luci della ribalta californiane. Isolato ma sufficientemente prossimo a dove le cose accadono, l’albergo diviene un punto d’osservazione ideale sull’America, spogliandola dei segreti, asciugandola da quei sogni di cui si alimenta. L’America è quella a cavallo tra anni ’60 e ’70, in bilico tra due decenni profondamente diversi, esattamente come l’albergo lo è tra due stati. Un periodo che vede il risveglio dal sogno hippy, inghiottito dall’autocompiacimento e in piena metamorfosi, che vede stroncata quell’ambizione di successo tipica dei giovani, rinchiusa in locali da quattro soldi a Reno o spedita a morire in Vietnam. Quel Vietnam che passa alla TV tramite i notiziari e le menzogne di Nixon, una presenza velata all’interno dell’albergo che il suono della bella musica del periodo che passa dal Juke Box non riesce sempre coprire; a differenza del canto ritmato di Darlene capace di soffocare i rumori che corrono per i corridoi e le camere. Un film che vive di suoni, quelli rapiti all’intimità, che si annidano da un lato all’altro di una parete, o passano per i cavi telefonici, intercettati e pronti ad esplodere come i colpi di un’arma da fuoco. Nell’America tra ’60-’70 sembra sempre che ci sia qualcuno appostato a osservare e ascoltare, a riprendere e registrare, a raccogliere materiale per scandali e minacce, spiando e immortalando le vergogne più atroci e compromettenti. Parti di un meccanismo ordito da menti lontane, allo scopo di spostare il potere politico. Sono osservatori occulti e morbosi che ora cercano redenzione, per quello che hanno visto e per ciò a cui hanno contribuito.
Goodard dirige una sua sceneggiatura originale, pratica sempre più rara ultimamente, muovendo i personaggi che popolano l’albergo come figure allegoriche all’interno di un contesto storico di forte cambiamento. All’apparenza tutti sembrano avere una doppia anima al proprio interno, ma non sempre è così. Goodard prende infatti ispirazione dal cinema di Tarantino, sia nel modo di caratterizzare gli interpreti, che nell’ordine o meglio disordine narrativo, un esercizio di scrittura che non vuole rimanere imprigionato in schemi e forzature. Mantenere una sceneggiatura ambigua e depistante, passa dalla distribuzione non lineare dei flashback e dalla creazione di diverse prospettive della medesima sequenza, in un gioco col pubblico che ricorda molto da vicino il Giallo. La falsa traccia, i dettagli inseriti per sviare e un panorama di personaggi pronti a tradire o confermare l’impressione iniziale, sconfessando la loro natura o redimendosi, l’influenza di Tarantino passa attraverso queste forme d’inganno persistente.
Chi è chi? E chi ha fatto cosa? Su questi interrogativi si dipanano gli avvenimenti che accadono all’interno dell’hotel; ognuno dei personaggi ci è capitato per motivi diversi, e l’isolamento della struttura non può che enfatizzare la cultura del sospetto. L’onda lunga del maccartismo ha faticato ha ritirarsi dalla provincia, e ognuno ha qualcosa da nascondere, anche se da nascondere non ha proprio niente. Più dialoghi che azione, avvenimenti marginali dilatati fino all’estremo, e punti cruciali concentrati in pochi fotogrammi, Tarantino ha insegnato questo alle nuove generazioni di sceneggiatori, come anche l’inserimento di elementi disturbanti. Ma è dall'’atmosfera di provincia americana, raccontata dai film dei fratelli Coen, che nasce lo stato d’animo della pellicola. Una provincia che genera diffidenza e nasconde i propri mostri. Goodard costruisce così il suo personale Charles Manson, vestendo di carisma e fascino un’anima demoniaca, talmente impregnata di egoismo e malvagità da sopravvivere alla proverbiale pioggia espiatoria. Un demone che può essere sopraffatto soltanto dalle fiamme che l’hanno generato.