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lunedì 09 Dicembre 2024     Accedi

America a tinte pulp: 7 sconosciuti a El Royale

Un hotel costruito sulla linea di confine tra due stati, un giallo abbozzato e un linguaggio cinematografico alla Tarantino. Lo sguardo sull’America alla fine del sogno hippy, e all’alba degli scandali e delle intercettazioni, passa dall’intreccio di storie di una manciata di personaggi.

Giovanni Rizzi

TRAMA

Camera d’albergo, un uomo nasconde del denaro sotto il pavimento poco prima di venire di essere ucciso. Dieci anni dopo al lussuoso e decadente hotel El Royale giungono nuovi ospiti: la cantante Darlene, un sacerdote, un rappresentante e una misteriosa donna. Siamo in bassa stagione, l’albergo è vuoto, e ad accoglierli c’è il solo concierge tuttofare Miles, che illustra agli ospiti la particolarità della struttura: la possibilità di alloggiare in camere di due differenti stati, in quanto l’hotel è costruito sul confine esatto tra Nevada e California. Ma è proprio durante l’assegnazione degli alloggi che tra gli ospiti cominciano a serpeggiare tensioni e sospetti.

https://www.youtube.com/watch?v=e0i9WTZQzZU

Il successo della California e l’azzardo del Nevada:  esattamente sul confine di questi due stati sorge l’ albergo El Royale. Punto d’appoggio per chi tenta la sorte nei casinò di Las Vegas o sogna le luci della ribalta californiane. Isolato ma sufficientemente prossimo a dove le cose accadono, l’albergo diviene un punto d’osservazione ideale sull’America, spogliandola dei segreti, asciugandola da quei sogni di cui si alimenta. L’America è quella a cavallo tra anni ’60 e ’70, in bilico tra due decenni profondamente diversi, esattamente come l’albergo lo è tra due stati. Un periodo che vede il risveglio dal sogno hippy, inghiottito dall’autocompiacimento e in piena metamorfosi, che vede stroncata quell’ambizione di successo tipica dei giovani, rinchiusa in locali da quattro soldi a Reno o spedita a morire in Vietnam. Quel Vietnam che passa alla TV tramite i notiziari e le menzogne di Nixon, una presenza velata all’interno dell’albergo che il suono della bella musica del periodo che passa dal Juke Box non riesce sempre coprire; a differenza del canto ritmato di Darlene capace di soffocare i rumori che corrono per i corridoi e le camere. Un film che vive di suoni, quelli rapiti all’intimità, che si annidano da un lato all’altro di una parete, o passano per i cavi telefonici, intercettati e pronti ad esplodere come i colpi di un’arma da fuoco. Nell’America tra ’60-’70 sembra  sempre che ci sia qualcuno appostato a osservare e ascoltare, a riprendere e registrare, a raccogliere materiale per scandali e minacce, spiando e immortalando le vergogne più atroci e compromettenti. Parti di un meccanismo ordito da menti lontane, allo scopo di spostare il potere politico. Sono osservatori occulti e morbosi che ora cercano redenzione, per quello che hanno visto e per ciò a cui hanno contribuito.

Goodard dirige una sua sceneggiatura originale, pratica sempre più rara ultimamente, muovendo i personaggi che popolano l’albergo come figure allegoriche all’interno di un contesto storico di forte  cambiamento. All’apparenza tutti sembrano avere una doppia anima al proprio interno, ma non sempre è così. Goodard prende infatti ispirazione dal cinema di Tarantino, sia nel modo di caratterizzare gli interpreti, che nell’ordine o meglio disordine narrativo, un esercizio di scrittura che non vuole rimanere imprigionato in schemi e forzature. Mantenere una sceneggiatura ambigua e depistante, passa dalla distribuzione non lineare dei flashback e dalla creazione di diverse prospettive della medesima sequenza, in un gioco col pubblico che ricorda molto da vicino il Giallo. La falsa traccia, i dettagli inseriti per sviare e un panorama di personaggi pronti a tradire o confermare l’impressione iniziale, sconfessando la loro natura o redimendosi, l’influenza di Tarantino passa attraverso queste forme d’inganno persistente.

Chi è chi? E chi ha fatto cosa? Su questi interrogativi  si dipanano gli avvenimenti che accadono all’interno dell’hotel; ognuno dei personaggi ci è capitato per motivi diversi, e l’isolamento della struttura non può che enfatizzare la cultura del sospetto. L’onda lunga del maccartismo ha faticato ha ritirarsi dalla provincia, e ognuno ha qualcosa da nascondere, anche se da nascondere non ha proprio niente. Più dialoghi che azione, avvenimenti marginali dilatati fino all’estremo, e punti cruciali concentrati in pochi fotogrammi, Tarantino ha insegnato questo alle nuove generazioni di sceneggiatori, come anche l’inserimento di elementi disturbanti. Ma è dall'’atmosfera di provincia americana, raccontata dai film dei fratelli Coen, che nasce lo stato d’animo della pellicola. Una provincia che genera diffidenza e nasconde i propri mostri. Goodard costruisce così il suo personale Charles Manson, vestendo di carisma e fascino un’anima demoniaca, talmente impregnata di egoismo e malvagità da sopravvivere alla proverbiale pioggia espiatoria. Un demone che può essere sopraffatto soltanto dalle fiamme che l’hanno generato.


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