Whitey On Mars
Avvenne nella notte tra il 20 e il 21 luglio 1969, quel primo passo. L’intero pianeta aveva gli occhi rivolti su di un tubo catodico che rimbalzava immagini in bianco e nero del primo uomo sulla Luna: il programma Apollo aveva raggiunto il suo obiettivo, e dopo anni di lavoro e quasi 16 miliardi di dollari spesi (fino ad allora) per il progetto Neil Armstrong camminava sul Mare della Tranquillità.
E se finalmente potevamo vedere la Terra da lassù, non tutti quelli che alzavano lo sguardo verso la Luna da quaggiù si sentivano felici allo stesso modo. Alcuni anzi erano davvero arrabbiati. Per alcuni la situazione quaggiù era così terribile da vedere quasi come un insulto il fatto che fossimo arrivati lassù. Nei ghetti, tra gli ultimi, tra l’immondizia del Bronx, la fame, la segregazione, tra i poveri d’America si levava un grido di indifferenza e sdegno verso "whitey on the moon", l’uomo bianco sulla luna, che si cristallizzò nei versi celebri di uno dei più grandi poeti blues (e padre spirituale dell’hip-hop) dell’epoca, e quindi di sempre: Gil Scott-Heron.
A rat done bit my sister Nell.
(with Whitey on the moon)
Her face an' arm began to swell.
(but Whitey's on the moon)
Un topo ha morso mia sorella Nell.
(con l’Uomo Bianco sulla Luna)
Il suo viso e il suo braccio cominciarono a gonfiarsi.
(ma l’Uomo Bianco è sulla Luna)
Comincia così "Whitey On The Moon", e urla tutta la rabbia di chi vede miliardi di dollari e incredibili sforzi per portare "whitey" sulla luna mentre i propri fratelli muoiono per strada, non hanno accesso a cure mediche, vengono sfrattati, restano senza lavoro.
Perché qui, sulla terra, si ignora chi soffre, mentre si sta tutti con il naso alzato a guardare l’Uomo Bianco sulla Luna?
Erano altri tempi, sicuramente, e un’altra America: è una protesta che si pone nell’ambito della società americana dell’epoca, della contrapposizione feroce tra bianchi e neri, tra Stati Uniti e Russia, certo. Ma è una questione che, in un modo o nell’altro, si ripropone a ogni missione spaziale.
Lo scorso 26 Novembre il lander InSight ha raggiunto la superficie di Marte dopo un viaggio di 483 milioni di chilometri, e con l’arrivo delle prime foto si è nuovamente levato un coro: “Perché spendiamo tutti questi soldi (800 milioni di dollari, in questo caso) in missioni spaziali inutili, quando potremmo usarli qui e ora per aiutare chi ne ha bisogno?”.
Nel 1970 Mary Jacunda, una suora missionaria nello Zambia, scrisse all’allora direttore scientifico della NASA, Ernst Stuhlinger, ponendo questa domanda. Stuhlinger rispose in maniera puntuale e profonda, argomentando sul come sia certamente indispensabile aiutare chi ne ha bisogno qui e ora, ma non a discapito della ricerca scientifica, perché è proprio grazie a missioni spaziali come quella che possiamo migliorare la vita sulla Terra.
Le scoperte scientifiche e tecnologiche necessarie per progetti di questa portata, disse, hanno avuto e hanno utilizzi pratici impensabili ed enormi nella vita di tutti i giorni grazie allo sviluppo di nuovi materiali, nuove tecniche costruttive, nuove conoscenze sul corpo umano... Il solo impatto dei satelliti sull’ottimizzazione delle tecniche agricole ha avuto un peso incalcolabilmente maggiore rispetto a quello che gli stessi dollari avrebbero avuto se semplicemente fossero stati distribuiti tra gli agricoltori. La ricerca scientifica ha obiettivi concreti e fondamentali, ma a medio lungo termine, e spesso derivanti da progetti ben più complessi e all’apparenza scorrelati, e quindi difficili da vedere nell’immediato: è l’ambizione di progetti così importanti che porta l’essere umano a dare il meglio, a raggiungere traguardi che sarebbero stati impensabili solo focalizzandosi su di un progetto molto specifico.
È un ruolo che per tre millenni si è assunta l’industria militare: non è magnifico che man mano se lo stia assumendo la scienza?
Il solo fatto di aver visto la Terra dalla Luna ha avuto un impatto incredibile sugli esseri umani e sulla percezione del proprio minuscolo spazio vitale, questo pianeta che di colpo ci si rende conto essere un puntino nello spazio, e che in quanto tale debba essere salvaguardato.
A suo modo è stata una rivoluzione, un cambio di prospettiva epocale.
L’uomo da sempre cerca una risposta al perché della propria esistenza. È un istinto primordiale, radicato nel nostro essere e qualunque sia la risposta che ci si vuole dare la scienza ha un ruolo fondamentale e trasversale. Il fascino dell’ignoto è da sempre il motore dell’evoluzione umana: finiti i territori da esplorare con le caravelle qui sulla Terra, è stato inevitabile alzare gli occhi al cielo e costruire caravelle per le stelle. Questa spinta è trainata dall’immaginazione e supportata dalla tecnica, e produce vantaggi per tutti. Gil Scott-Heron più che attaccare l’Uomo Bianco sulla Luna, urlava con la voce di quelli lasciati indietro, nel fango sulla Terra: non è impedendo a qualcuno di andare sulla Luna che si porta vera uguaglianza, quando permettendo a chiunque, nessuno escluso, di andarci, sulla Luna.
Per poi tornare e condividere, con tutti, le scoperte e le innovazioni che ci permetteranno di vivere meglio, qui sulla Terra.
O su Marte, chissà.
(Sulla figura di Neil Armstrong e sul programma Gemini, apripista dell’Apollo, è incentrato First Man, l’ultimo film di Damien Chazelle, qui recensito dal nostro Giovanni Rizzi)