High Rollers, Bad Bones
La Ventura Freeway taglia come un coltello la fetta di California che va da Santa Barbara a Pasadena, nel cuore della San Fernando Valley. Difficile considerarla un’autostrada, per il suo confondersi con le arterie cittadine e il suo asfalto consumato, impossibile non restarne affascinati mentre la si percorre tra infinite periferie, aree industriali fatiscenti, macchine abbandonate, murales, recinti, stazioni di rifornimento che fanno da corona a quella Los Angeles così estesa e inafferrabile da essere sempre attorno a te, senza che tu possa mai essere al suo centro. Su queste strade di rabbia, calore, povertà e motel da quattro soldi è nato quell’hard rock stradaiolo degli anni ‘80 che ancora oggi pervade l’etere sulle onde di radio come KTYD-FM a Ventura (CA), sparato a volume massimo dagli altoparlanti di furgoni arrugginiti in coda ai semafori. Ed è proprio su queste strade, in questa zona di California d’asfalto, motori e petrolio, che i Bad Bones sono cresciuti e hanno messo radici profonde. La loro è stata una scommessa, una scommessa di quelle dove ti giochi tutto, all-in, o dentro o fuori. E questo High Rollers, il loro quinto album in studio (uscito sotto l’etichetta Sliptrick Records) sembra voler sottolineare come loro Grandi Scommettitori lo siano stati davvero. E ci abbiano visto giusto.
Un disco dei Bad Bones (Steve Balocco al basso, Lele Balocco alla batteria, Max Malmerenda alla voce e Sergio Aschieris alla chitarra) è un salto nel tempo e nello spazio, in quei luoghi dove fare hard rock viene naturale, in quel tempo dove tutto il mondo stava ad ascoltarlo, con i jeans strappati, i giubbotti di pelle e i capelli lunghi. Questo High Rollers, seppur nato da quella terra, risente di molteplici influenze: nell’ascoltarlo si sentono echi dei Motorhead, cavalcate di basso degli Iron Maiden (Steve Balocco ha in passato collaborato con Nicko McBrain, batterista delle Vergini di Ferro…), schitarrate da Guns’n’Roses, e linee vocali pulite e ruvide allo stesso tempo. Tra Thin Lizzy e Mötley Crüe, Ramones e AC/DC, con un po’ di quella sana tamarraggine alla Def Leppard che non guasta mai. Sono canzoni che ti fanno alzare dalla sedia e cantare, fare a spallate ai live (vero punto di forza della band) e trovarti per qualche istante a correre su di una highway cavalcando una moto fiammeggiante, come il Midnight Rider dell’omonimo pezzo (forse il mio preferito dell’album). Miele e whiskey, con quella patina di saturazione che il segnale NTSC aveva rispetto ai nostri televisori PAL, e che ci fa subito capire che le immagini arrivano da quella parte del mondo. E, perché no, anche un po’ di classic rock, visto l’omaggio a Rock’n Me, cover della Steve Miller Band (San Francisco, sempre California, ma un altro mondo) che chiude l’album.
Un album che ti prende già al primo ascolto e che non si fa lasciare facilmente, ben prodotto (al Domination Studio di Simone Mularoni, e in seguito sotto la guida di Roberto Tiranti dei Labyrinth) ed egregiamente suonato (ma c’erano dubbi?).
Ad ogni loro album mi meraviglio di come sia possibile che ancora oggi si possa produrre hard rock stradaiolo di tale qualità, potenza e autenticità. Poi mi ricordo di quando li ho visti arrivare a San Francisco, nel mezzo di uno dei loro tour per gli Stati Uniti. Un furgone, strumenti in spalla, brutti e meravigliosi allo stesso tempo, di ritorno da uno show al Whisky a Go Go, forse il più famoso club di Los Angeles. Li vedi spaccare di brutto, li vedi divertirsi e lasciare ammutoliti un pubblico che di questa musica ne ascolta a bizzeffe, e ci parli davanti a una birra per sentirti raccontare aneddoti da backstage che farebbero impallidire Del Preston. E capisci che la loro musica è come loro, e loro sono come la loro musica.
L’unico dubbio che può generare un album del genere è che questo tipo di musica possa ormai aver stufato, o suonare fuori tempo massimo. Ma se questo è il problema, allora mi spiace ma è un problema vostro.