Tomatis: “Mi interessa raccontare la canzone come un fenomeno culturale” L’INTERVISTA
Uno dei punti fondamentali del lavoro è l’analisi del contesto politico culturale non solo dei lavori più impegnati ma anche della canzonetta più commerciale. In che modo un prodotto discografico può risentire di tutti questi fattori contestuali?
Credo che l’errore più grande che si può fare, studiando la canzone, è pensare che certi brani siano interessanti perché hanno dei legami diretti con quanto succede intorno, tipo la politica o la storia nazionale (legami che, peraltro, sono riconoscibili perché si trovano nel testo) e altri invece non lo siano perché parlano di Marina che è una ragazza mora ma carina, o di Laura che non c’è perché è andata via. In realtà, la canzone – tutta la canzone – esiste nella storia, e assume un significato solo nel suo contesto: casomai, per capire certi brani servono strumenti di analisi più raffinati, che non si limitino a leggere il testo. E, peraltro, anche la canzone più “artisticamente e politicamente impegnata” esiste nel sistema di mercato, e può avere una funzione di “distrazione”: è difficile tirare una linea chiara tra l’una e l’altra.
In che modo lo studioso ascolta e analizza questi brani? Cosa aggiunge uno studio del fenomeno canzone alla conoscenza culturale più complessiva?
Il succo del discorso è che mi interessa meno raccontare la storia della canzone come elenco di titoli, di autori e di dischi e più come fenomeno culturale, “la canzone” e non “le canzoni”. Il che significa non porre soltanto attenzione al testo, alla musica, o all’insieme dei due, ma osservare che ruolo abbiano avuto le canzoni nella vita delle persone, come vengano ascoltate e suonate, come vengano valutate da un punto di vista estetico… le pratiche musicali, appunto. È in questa prospettiva, credo, che una storia della canzone può aiutarci a capire qualcosa di più su chi siamo, come ogni storia culturale dovrebbe fare: d’altra parte, se tutti ascoltiamo canzoni, se hanno un ruolo così importante nella vita di molti di noi, perché ignorarlo?
Con la diffusione capillare e sostanzialmente gratuita della musica e al contempo il fascino delle persone per l’esperienza e per la condivisione della stessa, concerti e incontri con l’artista sembrano essere tornati al centro, mentre registrare è un’operazione che ha una funzione sempre più promozionale. Qual è il tuo punto di vista su questo tema? Condividi questa sommaria analisi?
Condivido. Ma se ci pensi, la musica può essere registrata e conservata nel tempo solo da poco più di un secolo: un nonnulla, nella storia dell’umanità. L’idea che la modalità più ovvia per ascoltare musica sia quella di “possederla” in forma di oggetto (il disco) è ancora più recente, ed è una piccolissima parentesi: già i millennials sembrano farne a meno. La modalità attuale che si sta definendo per ascoltare musica registrata, lo streaming, è più simile all’acquisto di un servizio che non di un bene, a pagare la bolletta dell’acqua più che a comprarne una bottiglia, per intenderci. C’è una “perdita” di qualcosa, certo, e credo che il rilancio dei concerti (così come quello del mercato di nicchia del vinile) siano una risposta a questa “perdita”…
Si leggono tanti luoghi comuni sullo stato di salute del fenomeno musicale in Italia: c’è davvero un degrado qualitativo? O semplicemente il tempo ha filtrato le produzioni più dozzinali e commerciali nei negozi in passato e ha tramandato solo le cose migliori alle nostre orecchie, facendo apparire il trascorso come una sorta di età dell’oro?
È un discorso molto complesso. Credo però ci siano due considerazioni da fare: la prima è che quella che oggi ci appare come un’età dell’oro (nel caso della canzone italiana, gli anni ‘60 e ‘70), non sempre era ritenuta tale dai contemporanei: si può sorridere a leggere oggi che cosa si diceva allora di musicisti oggi “intoccabili”. L’altra è che è cambiato, e di molto, il posto che la musica ha nella società e nei consumi. Un adolescente degli anni ‘60 aveva poche scelte su come spendere i suoi pochi soldi: tipicamente, si comprava un disco. Un adolescente di oggi dispone di più potere d’acquisto, e può investire in oggetti molto diversi per il suo tempo libero, dai videogiochi agli smartphone. Un altro elemento che è mutato, e che è davvero tipico dell’oggi, è poi la capacità di immaginare una musica del futuro, di immaginare il “nuovo”: non a caso siamo nell’epoca della nostalgia e della retromania. Le cose del passato sembreranno sempre migliori se lo scopo non è sovvertirle ma rifarle. Ma è – ahimè – un problema che non riguarda solo la canzone, ma più in genere la nostra cultura.
Si sono sempre lette critiche sulle nuove tendenze musicali, ma non ricordo un’indignazione pari a quella che sta investendo il fenomeno trap, con stigmi di biasimo anche di persone di grande cultura. Quali sono le tue impressioni di studioso su questo fenomeno?
Le bestie di satana, Marilyn Manson (ricordi Bowling a Columbine?), i neomelodici camorristi, per limitarci a tempi recenti… E prima il punk, la disco, il rock’n’roll, persino il jazz e i cantautori sono stati inscritti nell’elenco delle brutte musiche pericolose per la salute pubblica e per i giovani. L’unica grande differenza che vedo nel caso della trap (ma – ancora – non riguarda solo la musica) è che internet permette di amplificare a dismisura ogni reazione senza filtro alcuno, e che ognuno si sente in dovere di esprimere il proprio parere. Ma, se guardiamo alle argomentazioni, soprattutto a quelle degli intellettuali, non ci sono davvero differenze, ed è un fatto che mi affascina davvero molto. Com’è possibile che ogni generazione ricada in questo trappolone? Facciamoci tutti un bell’esame di coscienza su che cosa ascoltavamo a 15 anni… Una storia della canzone dovrebbe servire anche a questo: non si possono comprendere certi fenomeni se non vengono letti in prospettiva.