Natura e pittura per una rivalsa sensoriale: Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità
Sebbene una peculiarità dell’artista sia la versatilità e la capacità di spingersi ad esplorare altre forme d’arte, è raro l’esempio di pittori trasferiti dietro la macchina da presa, ed è altresì ancora più inusuale che essi ne abbiano approfittato per raccontare alcuni illustri colleghi del passato, come avviene ora per Van Gogh diretto da Julian Schnabel. Non nuovo a trattare biografie sui pittori, il regista offre la sua ricostruzione dell’ultimo lembo di vita dell’artista olandese: quello che parte dal suo soggiorno ad Arles nella celebre casa gialla, fino alla morte per arma da fuoco avvenuta ad Auverse sur Oise. Periodo in cui, oltre alla notevole ispirazione e produzione artistica, ha visto il famoso taglio dell’orecchio e la permanenza momentanea di Gauguin al suo fianco, oltre agli innumerevoli dissidi con gli altri compaesani e le continue crisi mentali.
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Pazzia e ispirazione si fondono, dove per ammissione dello stesso la prima ne è fautrice della seconda, mentre la vita in provincia consigliatagli, favorisce il cogliere della magia della natura da cui tanto Vincent attinge, e che ancor più avidamente assapora attraverso tutti i suoi sensi, metabolizzandola fino ad interiorizzarla. Schnabel sceglie di dedicare lungo tempo alle escursioni del pittore, seguendolo con la camera nel suo peregrinare, evidenziandone il passo sempre accompagnato da una musica di pianoforte incessante, quasi documentaristica. Nonostante uno stato di armonia sensoriale con gli elementi, l’ispirazione di Van Gogh è tormentata e irrequieta, essa si muove frenetica all’interno della testa dell’artista, esattamente come il moto vorticante della macchina da presa dentro la stanza dove Vincent lavora, entrambe trovano sollievo solamente quando il pennello si posa sulla tela. E’ questa la trama stilistica che spicca maggiormente, mentre la trattazione narrativa si divide tra la complicata convivenza di un’artista rivoluzionario in un ambiente retrogrado che non lo comprende, e il rapporto prima benevolo poi autodistruttivo con Gauguin. La prima è fonte di continui problemi con il resto della popolazione, non disposta a concedere nessun tipo di licenza all’esponente di un’arte che non capiscono e che quindi non considerano come tale. Frainteso e perseguitato negli episodi poco chiari della sua permanenza, Schnabel sceglie di scagionarlo, nonostante in lui ci sia una discreta parte di colpa, concedendo però alla controparte il merito di avergli comunque donato una ristretta cerchia di persone disposte a stare dalla sua parte. Ma quello che rende realmente felice Van Gogh è l’aver vicino il grande amico Paul, inviatogli come ancora di salvataggio dal fratello Theo. Il feeling artistico fatto di pitture all’aria aperta e di brillanti discussioni sull’arte, favoriscono un deciso miglioramento dello stato emotivo di Vincent, anche quando Gauguin, primo ammiratore ma anche primo critico di van Gogh, contesta all’amico l’eccessiva velocità d’esecuzione e l’abuso di colore utilizzato sulla tela, più simile ad una scultura che a un quadro. Ma l’idillio è destinato a terminare quando Paul decide di partire, innescando una crisi in Vincent che culmina nel taglio dell’orecchio sinistro. E mentre Gauguin raggiunge gli ambienti parigini che finalmente cominciano a riconoscere il genio di Vincent, egli è paradossalmente costretto in un istituto di cura mentale, l’artista finalmente apprezzato nei salotti che contano è la stesso individuo che la gente considera pazzo. Schnabel gioca con questi contrasti e sulla soggettività nel valutare la persona, regalando ai due estremi d’inizio e fine pellicola il suo pensiero sull’ artista incompreso e rivalutato dopo la morte, una sorta di maledizione diffusa che priva molti della possibilità di godere in vita del riconoscimento del valore del proprio lavoro.