Giù nel “Dogmadrome”: il cyberpop di Lorenzo Mò
Dogmadrome, recentemente uscito il 26 marzo presso Eris Edizioni, è l’esordio nel graphic novel del giovane fumettista monregalese Lorenzo Mò (un nome non nuovo ai lettori di Culture Club 51, che ha più volte parlato del suo lavoro artistico). L’autore, classe 1989, laureato all’Albertina di Torino, è una delle firme del Linus di Igor Tuveri, e uno dei (per fortuna, molti) nuovi autori più interessanti emersi in questi anni nel fumetto italiano. Questa opera prima è molto interessante, perché da un lato è avvicinabile, in senso lato, al generale rinascimento neo-pop del fumetto italiano; dall’altro, però, se ne distacca, manifestando caratteri suoi propri.
Il segno grafico di Mò è il primo elemento che colpisce il lettore con la sua potenza visiva, e l’elemento che lo collega maggiormente all’emergente gusto neopop. Le radici sono nella rilettura che l’underground americano ha fatto del segno Disney, certamente, ma ancor più di quello di Segar e di Tex Avery, decostruendolo dall’interno. Il NeoPop rielabora tale stilema in modo più pulito, più glamour, influenzato in parte, in questo, dal generale revival anni ‘80 (mantenendo però negli autori più consapevoli,come Mò stesso, lo stesso perturbante, appena più rifinito). In Italia, segnata dal predominio di un segno veristico nel fumetto avventuroso, la rottura è forse ancora più forte, in opere come Tumorama (2016), The Rust Kingdom (2017), Kid with Guns (2018); e Mò esplora una nuova possibile direzione di questo universo in piena espansione.
Leggendo il fumetto, comunque, ci si rende conto della specificità dell’autore, in una narrazione piuttosto smaliziata nella gestione del postmoderno. Una caratteristica del neopop è infatti, spesso, una trama volutamente lasca, in opposizione anche a una certa “dittatura della trama” nel fumetto italiano classico (caratteristica, del resto, propria del postmoderno nella sua fase di rottura).
La storia di Mò, all’apparenza, aderisce a questa casualità della trama, a un primo livello: ma le dà una cornice più raffinata. Le vicende dei tre giovani protagonisti sono infatti fin da subito, chiaramente, quelle di tre giocatori di ruolo – un power trio di mago, guerriero e folletto; un altro elemento di cultura nostalgica anni '80 – nelle mani di un master particolarmente inetto: e Mò ricostruisce bene, con la dovuta ironia, le classiche situazioni dei giocatori di ruolo adolescenziali alle prime armi (il più grande dei tre ragazzini è sedicenne).
Avventure quindi coloratissime e sgangherate, ma a ragion veduta, per l’incapacità del conduttore del gioco interno all’opera (che interviene in didascalia). A lungo resta il dubbio sulla natura della storia, finché si palesa che non è solo la metafora di una partita di gioco di ruolo, ma è una vera e propria realtà virtuale. Questo punto di svolta porta alla vicenda vera e propria, al Dogmadrome dal sapore cronemberghiano (e anche il rimando a Videodrome è un elemento, ben rielaborato, della nostalgia ’80: il film è infatti del 1983). La storia si fa più disturbante, ma Mò, autore e “master esterno” della partita, riprende le redini della narrazione e la conduce a uno sviluppo dotato di una coerenza interna di fantascienza piuttosto classica, diremmo un cyberpunk neopop ben strutturato.
La cosa interessante è che anche il segno neopop, di cui abbiamo detto, viene messo in una particolare cornice narrativa: potrebbe essere – e probabilmente è – il vero aspetto della realtà virtuale in questione, e non una deformazione “pop” del reale. Viene il sospetto che “Dogma”, prima parte del titolo, sia quasi un rimando per contrasto all’estetica del severo realismo di Dogma 95 di Lars Von Trier e soci (austera reazione, del resto, all’effettistica speciale degli ’80); e non solo un rimando al ruolo divino, “dogmatico”, assunto dal master specie se incapace – come in questo caso – come una paradossale divinità assoluta veterotestamentaria (magari con un rimando al film Dogma di Kevin Smith, del 1999).
Naturalmente, si tratta di speculazioni che rischiano sempre di sfociare nella sovrainterpretazione: e resta quindi, soprattutto, l’immediato piacere di una narrazione nel complesso classica, e quindi godibilissima, con uno stile giocosamente sperimentale, reso davvero affascinante dalla indiscutibile maestria tecnica dell’autore. Ma l’aspetto più interessante, in prospettiva, mi pare proprio questo: Mò potrebbe essere uno degli autori più indicati per innervare questi stimoli nel mainstream del fumetto italiano, che ha a mio avviso davvero bisogno di un rinnovamento sostanziale (e non solo nel fumetto comico/disneyano, relativamente più aperto a tali esperienze). Per il momento, comunque, aspettiamo con grande interesse il suo prossimo romanzo a fumetti.