Un afroamericano nel Ku Klux Klan: BlackKklansman
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TRAMA
Letta un’affissione di reclutamento per persone appartenenti alle minoranze, Ron Stallworth decide di arruolarsi, divenendo il primo afroamericano nel dipartimento di polizia di Colorado Springs. Siamo all’inizio degli anni ’70: la guerra del Vietnam è in corso e l’urlo dei Black Panther reclama i diritti delle persone di colore, l’America è una polveriera pronta ad esplodere. Intanto Ron, nonostante i pregiudizi di alcuni colleghi, riesce a farsi strada ottenendo una promozione da archivista a detective dell’intelligence. Dopo aver partecipato come infiltrato a un comizio delle pantere nere tenuto da Kwame Ture, si avvicina alla causa, e leggendo su un giornale l’inserzione di una cellula locale del Ku Klux Klan, Ron decide di dare il suo contributo, infiltrandosi nell’organizzazione per smantellarla dall’interno.
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Nonostante siano passati 40 anni dal periodo di ambientazione della pellicola, la convivenza pacifica tra diverse comunità risulta ancora complicata, governi più sensibili hanno ridotto il problema, ma l’America attuale con le politiche dell’amministrazione Trump sembra aver invertito la rotta. Spike Lee non lesina associazioni tra l’attuale presidente e l’ideologia del suprematismo ariano alla base del Ku Klux Klan, montando con taglio documentaristico, spezzoni di discorsi di Donald Duke e di Trump, senza risparmiare una stoccata al pioniere del cinema americano David Wark Griffith, che con il suo Nascita di una Nazione ha ispirato notevolmente il Klan. Spike Lee gioca sulla curiosità, proponendo un film d’inchiesta decisamente alternativo, utilizzando i dettami della commedia e mantenendo una tensione da poliziesco classico, con momenti di forte inquietudine drammatica; quest’ultima utile a mantenere viva l’attenzione sul discorso reale che la pellicola vuole affrontare.
Ron orgoglioso delle sue origini e del suo lavoro, non rinnega il taglio di capelli afro quando entra in polizia, ma nemmeno rinuncia al suo ruolo di pubblico ufficiale, anche quando si trova a scortare il presidente del klan Donald Duke, in visita in città. L’America fa i conti con se stessa, e a scavare dentro i meandri più vergognosi ci pensa il team di Stallworth: la voce di Ron che dalla cornetta muove i fili dell’indagine, diventa corpo tramite il collega Zimmerman, che partecipa di persona sotto copertura alla vita della cellula locale dell’organizzazione. Questo prevede ovviamente molti rischi, affrontati dalla coppia con grande affiatamento e autoironia, attraverso una preparazione meticolosa e maniacale del dettaglio. La loro forza risiede nelle differenze, fisiche, sociali e caratteriali: l’afroamericano sensibile ai problemi della comunità e l’ebreo non praticante, insieme per la passione nel lavoro, e per combattere chi è contro la dignità umana. Una lotta contro la disuguaglianza che non passa dalle sassaiole contro le forze dell’ordine, ma attraverso una dimostrazione di integrazione, questa è la maturazione culturale che passa nelle pellicole di Spike Lee. Il regista è sempre stato sensibile alla comunità, partendo dalle strade della sua New York, fino ad arrivare agli Appennini di Miracolo a Sant’Anna, proponendo i suoi membri come parte attiva e non contraria alla nazione, in un servizio paritario che attende dallo Stato un riconoscimento altrettanto egualitario.
Un’America che apre alle minoranze: l’opportunità che viene data a Ron è il segnale di avvicinamento di una nazione, che vive soprattutto nelle zone periferiche di grande disuguaglianza, ma che tenta con una campagna di arruolamento mirato di pensare ad un abbozzo di benessere collettivo. Integrare l’organico di polizia con persone provenienti dalle minoranze, può anche essere un mezzo per creare un cuscinetto tra stato e frange più disagiate nel popolo, ma è un sicuro passo di distensione. Le due parti collimano anche nell’intimo di Ron: che si suda la promozione e al contempo si avvicina alle idee dei Black Panther. Il comizio di Kwame Ture non è solo galeotto per l’amore verso la militante Patrice, ma fornisce attraverso il linguaggio filmico, l’importanza delle parole dell’attivista: una telecamera che si avvicina gradualmente dalla platea verso il palco, e i volti di gente comune che escono dal buio dell’anonimato, affacciandosi alla luce dell’emancipazione.
Una lotta al pensiero più che all’organizzazione, si intuisce che per Ron&Co non sarà difficile avere la meglio su una piccola sezione di provincia del Klan, ma è all’interno del pensiero che si vuole entrare. Se il brindisi di fine missione ha un sapore trionfale, le croci bruciate che si scorgono in lontananza, renderanno amaro il suo retrogusto, una piccola battaglia vinta dentro una guerra ancora lontana dall’esserlo.