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lunedì 09 Dicembre 2024     Accedi

Un cocktail di generi al gusto miele: Dolceroma

Il pirotecnico adattamento del romanzo “Dormiremo da vecchi” è un medley di generi cinematografici, che ci porta all’interno di un film nel film.

Giovanni Rizzi

L'articolo potrebbe contenere spoiler

TRAMA
Andrea Serrano è un giovane e ambizioso scrittore, costretto però a lavorare come assistente di obitorio, fino a quando il produttore cinematografico Oscar Martello lo contatta per realizzare un film tratto da un suo romanzo. A causa delle dubbie scelte del regista, il film che ne scaturisce è qualitativamente disastroso, impossibile da sistemare anche in post-produzione e perciò invendibile ai distributori. “Non finisce qui” è destinato a non vedere la luce e la carriera di Andrea a sprofondare prima ancora di cominciare. L’unica speranza risiede in un'eclatante mossa pubblicitaria che possa convincere qualcuno a distribuire la pellicola. Oscar e Andrea, ormai affiatati, decidono di escogitare un finto rapimento dell’attrice protagonista, attribuendone la colpa alla malavita organizzata, che non vorrebbe l’uscita del film.

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Che ci sia qualcosa di insolito per il cinema italiano lo notiamo fin dalla locandina, una composizione grafica che Luc Besson utilizzerebbe per un film di fantascienza, la Marvel e la Lucasfilm per una delle loro mega produzioni, Tarantino per omaggiare le pellicole orientali in cappa e spada e per evocare le fiamme e il sangue di Bastardi senza gloria, sfruttando le tonalità rossastre che sfumano le figure. Quelle del manifesto di Dolceroma sono invece avvolte nell’arancio, che riprende si quelle fiamme, ma diluendole nel miele, il nettare che il personaggio interpretato da Claudia Gerini utilizza per fare il bagno, come una moderna Cleopatra, ma più simile alla Shirley Heaton ricoperta d’oro in Goldfinger. La pellicola è una sorta di Medley cinematografico, non tanto per l’apporto citazionista, ma piuttosto come smisurata commistione di generi, centrifugati e ricomposti allo stesso ritmo serrato con cui Luc Besson manovra i suoi polizieschi. Quel ritmo che il protagonista, lo scrittore Andrea Serrano, esigeva per il film che doveva prendere vita dal suo libro. Un poliziesco proprio come quelli del regista francese, ricco di effetti speciali e capace di viaggiare a cento all’ora, con una top model strappata alle passerelle e posta al centro dell’azione. Ma purtroppo per Andrea ci sarà un film a basso budget, deformato dalle esigenze artistiche del regista, e dilatato fino agli estremi in sequenze impossibili tagliare, che neanche il lavoro di post-produzione potrà salvare. La pellicola di cui si parla è “Non finisce qui”, un’opera in realtà mai esistita, un film nel film presente solo nella finzione di Dolceroma, che riprende il filone del metacinema ampiamente esplorato dalla cinematografia mondiale. In tal senso l’Italia ha detto la sua, sia parodiando il neorealismo col “Garpelli” di Tre uomini e una gamba, sia trattando di alta riflessione artistica e filosofica con 8 ½ di Fellini. Ma quella presente in questo adattamento del regista Fabio Resinaro del romanzo di Pino Corrias, non è la Roma del maestro riminese o quella materna e protettiva di Pasolini, è quella dolce come il miele e perversa come l’utilizzo che ne viene fatto. Pronta a mostrare le viscere moralmente malate, sotto il volto luccicante e truccato dello star system, che Hollywood ha voluto smascherare molto più di Cinecittà, mostrandoci quel lato oscuro, che solamente in parte e in pochi ci hanno voluto illustrare: un inferno nascosto nel paradiso, in cui Luca Barbareschi è intenzionato a trascinarci. Il re degli scherzi in TV anni ’90, decide di portare la sua burla e il suo grottesco sul grande schermo, producendo un film in cui interpreta a suo volta un produttore. Un corto circuito che crea una sorta di alter ego vulcanico, al centro di una vicenda fortemente ispirata dall’avido ingurgitare di pellicole di genere, da parte del suo interprete: compresse per poi esplodere, in una pirotecnica eruzione di stili.

Se le feste organizzate da Oscar Martello, assomigliano per dissolutezza al suo fautore, esse, come fu per il Gatsby di un tempo o il Baz Luhrmann di adesso, hanno in realtà un loro compito, ossia la disperata ricerca di un distributore per il film. Scrittore e produttore, una coppia affiatata e disperata, disposta a tutto per portare alla luce la loro "creatura". Disposti a ricorrere anche alla fake news e persino alla malavita per raggiungere il loro scopo. Ecco che la tenue minaccia di un gruppetto di delinquentelli borgatari diviene più concreta, alimentata dalla mania di protagonismo del loro boss, incentivata dalla moda delle fiction sulla camorra; desideroso di raccontare i suoi affari sul grande schermo, si tramuta in parodia di se stesso e delle serie che lo hanno ispirato. Con tutt’altro spessore e intenzioni, I fatti della banda Magliana del 2004, aveva utilizzato un modello simile, lasciando agli stessi interpreti il compito di narrarci direttamente la malavita, eliminando quella quinta parete che li separava dal pubblico, in una forma decisamente teatrale, capace di confondere finzione e realtà. I duelli con le katane sembrano un vezzo che la pellicola vuole concedersi, occupando quel vuoto lasciato dalle parti d’azione da poliziesco mancanti, differentemente dalle pellicole anni ‘70 a cui la vicenda si vuole avvicinare. Qui ci si limita alla parte di indagine, con un poliziotto direttamente teletrasportato dagli anni di piombo, e costretto a combattere coi suoi umori, con un’indagine intralciata e infarcita da personaggi più vicini al mondo di James Bond che a quello nostrano. Resinaro monta la pellicola usando stilemi cari al fumetto, incrociando il poliziesco all’italiana con interpreti e situazioni molto prossimi appunto allo spionaggio in stile 007, il cui mix che si genera ci riporta a una pellicola del passato, e con cui condivide la stessa forma di coraggio. Quel Diabolik di Mario Bava, capace di essere intreccio di generi e stili al centro della cultura pop del periodo, che offre una versione del geniale e inafferrabile ladro delle Giussani, intrisa di edonismo, che sfocia nel provocante e intimo attorcigliarsi alla fatale Eva Kant, sotto un lenzuolo di miriadi di banconote. Se Andrea Serrano ha come il ladro ha una parte celata, la “femme fatale” di Resinaro, assomiglia sul set più a una Lara Croft, privata però della sua sicurezza una volta svestiti gli abiti di scena; sballottata tra una relazione sotterranea col produttore e una passionale con lo scrittore. Non è una novità che il cinema basi una trama sulle vicende di uno scrittore, ma se la crisi creativa è spesso preponderante, qui è invece in vivace sfogo, tanto che aiuta un autore giovane e insicuro ad acquisire consapevolezza e personalità, diventando lui il manovratore di quei fili che l’abitudine vuole in realtà mossi dal produttore. All’interno di una vicenda, capace di svariare su tutte le tonalità del cinema, dalla parodia alla commedia brillante, dal giallo al poliziesco, fino al nero del thriller.


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