L’integrazione si tinge di Oscar: Green Book
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TRAMA
Il buttafuori italoamericano Tony Vallelonga, rimasto senza impiego per la chiusura del locale dove prestava servizio, accetta un lavoro come autista e accompagnatore di Don Shirley: stimato pianista di colore impegnato in una tournèe nel sud degli Stati Uniti. Il lavoro terrà Tony lontano dalla famiglia per svariati mesi, e a renderlo più complicato subentreranno le enormi differenze di pensiero e abitudini tra i due. Ma i veri problemi saranno i gravi episodi di intolleranza razziale a cui inevitabilmente Don andrà incontro nell'America del 1962.
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Incredibile la metamorfosi di Peter Farrelly: il regista che in compagnia del fratello Bob, qui per la prima volta divisi, ha parodiato con sarcasmo e goliardia il costume americano a cavallo degli anni duemila, e che ora si è gettato improvvisamente in una pellicola di più alto spessore e di diverse pretese, pronta a trattare la spinosa questione dell'intolleranza razziale, rinnovando i toni dell'amata commedia. Una scelta rischiosa ma riuscita, un esempio di come l'ironia ben ponderata possa arricchire una pellicola che in realtà ci vuole offrire una riflessione più seria, mantenendo però un linguaggio più vicino al pubblico. Di questo se ne sono accorti anche all'Academy, che ha premiato la pellicola con l'Oscar per il miglior film, evento raro per una commedia, che in passato solamente con Billy Wilder e Woody Allen, e più recentemente col "The Artist" di Dujardin, ha potuto fregiarsi di tale riconoscimento. E' sempre stato difficile convincere le giurie che la commedia, data la sua propensione per la leggerezza e la faciloneria, potesse avventurarsi efficacemente in contesti considerati lontani dalla sua vocazione all'intrattenimento. Invece il lavoro di Farrelly dimostra, una volta di più di come questo sia possibile, e malgrado la sua non appartenenza, diversamente ai cineasti sopracitati, al club esclusivo dei registi d'autore è riuscito ad aprire una breccia nel muro del pregiudizio che imprigionava il genere.
Seppur poco citato all'interno della pellicola, il “Green Book” ne assegna il titolo, la sua è una funzione accessoria ai fatti realmente accaduti e raccontati, ma di grande importanza simbolica per la ricostruzione del contesto storico in cui si svolge la vicenda. I librettini turistici che prendono il nome dal suo ideatore, l'impiegato alle poste Victor Hugo Green, sono nati con l'intento di fornire un'utile guida al cittadino afroamericano, su come muoversi e dove alloggiare in sicurezza all'interno degli stati della federazione, senza incorrere in episodi di grave intolleranza. Una guida necessaria, pensata in un frammento storico in cui la gente di colore finalmente cominciava ad uscire dal ghetto, per reclamare il giusto diritto a muoversi in libertà nella totalità del territorio; un diritto che però sbatteva contro la forte opposizione di una grossa parte di popolazione, ancora profondamente razzista. Scritto con un linguaggio amichevole, quasi a voler raggirare le gravi turbe etiche che suo malgrado gli hanno dato vita, il libro si spera abbia cessato definitivamente il suo compito nel 1964, con la promulgazione delle "Civil Rights Act", che hanno reso illegali le discriminazioni razziali. Ne resta però il valore storico, un utile allegato oggettistico al racconto della difficile fase di integrazione in seno al '900 americano; un elemento tattile e quindi forse più “reale” capace di rendere tangibile un concetto come l'intolleranza.
Al centro della vicenda, il viaggio di Tony Valverde: italoamericano e recordman di quartiere in mangiate di hot dog. Abile nell'arte di arrangiarsi, espansivo e aggregante, come buona parte dei connazionali migranti si trova a convivere con Don Shirley. Il pianista di origine giamaicana, molto celebre negli anni '60, è però caratterialmente ai suoi antipodi, per via dell'attitudine solitaria e dell'educazione borghese: utile all'esaltazione del suo talento per la musica, ma dannosa per la sua vita sociale. Questo è il grande cruccio di Don, impossibilitato perchè di colore a frequentare i salotti dei bianchi che lo applaudono nei concerti, ma al contempo troppo "bianco" per pensare di essere accettato nella comunità afroamericana. Una fonte per lui di continuo malumore e frustrazione, che lo segregano ancora di più nel lussuoso appartamento e nella schiva riservatezza delle prime conversazioni con Tony. Il suo desiderio è quello di contribuire alla causa dei diritti della gente di colore, attraverso una tournèe proprio dove è più marcata la disuguaglianza, ma nell'intimo invece compare la volontà di riallacciare i legami con le proprie radici.
Il viaggio ottempera alla sua missione, ma non nei modi in cui Don aveva immaginato, percorrendo sentieri differenti e sorprendenti e con risultati non prefigurati. Un cammino che viaggia di pari passo con la conoscenza reciproca dei due protagonisti, che elimina le macroscopiche differenze, fino a divenire condivisione e perfetta empatia, costringendo l'uno a giungere in soccorso dell'altro. Se è vero che Green Book gioca con l'ironia presente nel ribaltamento dei ruoli, e altresì vero che essa non vuole cavalcare l'onda del pregiudizio ma semmai ridicolizzarlo, utilizzandolo come mezzo per una crescente complicità. Il cinema non sempre si è mosso con tale accortezza, scegliendo frequentemente, per le pellicole di intrattenimento, di sfruttare le diversità culturali delle minoranze come spunto per un'ilarità superficiale e ai limiti dello scherno, fomentatrici di un pensiero stereotipato che è l'esatto contrario di quel servizio che il cinema, come arte, avrebbe dovuto svolgere. Le cose da un po' di tempo a questa parte sono cambiate, e la sensazione è che l'uso di questo pregiudizio appartenga ormai al passato, esattamente come la stessa guida di Victor Hugo Green. A dimostrazione che dei passi in avanti sono stati compiuti, lenti e inevitabili, ma continui e progressivi, come quelli che hanno portato i critici a rivalutare la commedia, o come quello che ha permesso a Tony di superare i suoi pregiudizi. Un valore immensamente prezioso e posto sotto costante minaccia, da proteggere e custodire gelosamente: come un talento o un momento perfetto di felicità, condiviso con i propri affetti, e magari con un nuovo amico.