Una Fenice che non risorge ancora
TRAMA
Di ritorno da una delicata operazione di recupero appena fuori l’atmosfera terrestre, la mutante Jean Grey, membro del team degli X-men, comincia a risentire degli effetti dell’entità cosmica che l’ha attraversata. I suoi poteri telecinetici e telepatici vengono amplificati oltremisura, fino a divenire ingestibili per lei, essi inoltre risvegliano terribili ricordi che ne destabilizzano la personalità. Il team del Professor Xavier è inquieto dall’evolversi degli eventi e comprende di essere in pericolo.
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Per quel che riguarda l’universo mutante degli X-men, la saga della Fenice Nera rappresenta un passaggio obbligato, che come l’iceberg sulla rotta del Titanic o il dipinto di Dorian Gray, cela un destino inevitabile e distruttivo, che non si nasconde però sotto la superficie del mare o in una soffitta, ma nel profondo di una personalità turbata. Il fumetto sul gruppo dei super eroi X- men è nato con ben evidenti intenti morali votati alla lotta contro le discriminazioni, che gioca col contradditorio tra il timore per il “diverso” e la sua grande e possibile fonte di aiuto. I protagonisti sono persone comuni in possesso di qualcosa in più rispetto agli altri consimili, una mutazione genetica, una sorta di salto evolutivo, che li rende speciali ma allo stesso modo emarginati. La lotta per l’integrazione è il cuore narrativo degli X-men, che in svariate diramazioni e iperboli porta anche ad altre strade, che intendono raffigurare quel terreno che intercorre tra Dei e uomini; "l’anello mancante" che ha nella Fenice la sua rappresentazione più eloquente.
Questo ed altri aspetti hanno permesso alla storia di divenire parte fondamentale dell’universo X-men, che come sempre avviene nel mondo fumettistico, ne ha fornito alternative versioni, sbarcando poi al cinema nel poco fortunato epilogo alla trilogia dei primi anni duemila, incaricato ora di porre la parola fine a un'altra avventura lunga 4 film. L’elenco delle cose che non funzionano in questa pellicola è molto lungo, tant’è che conviene cominciare da quelle riuscite: come la portentosa e cupissima colonna sonora griffata Hans Zimmer, il buon mix di effetti speciali e coreografie da combattimento, specialmente quelle riguardanti Nightcrawler, e un’interessante impostazione psicologica della prima parte, disillusa poi nella seconda. E' evidente che all'improvviso qualcosa si inceppa, ed è facile intuire che buona parte della sceneggiatura sia stata riscritta; questo aspetto è stato confermato dal cast stesso, che è tornato a rigirare moltissime sequenze, una volta che la post-produzione si accorta delle notevoli somiglianze con un altro recente cinecomics.
"Gli imprevisti e i problemi sul set sono uno stimolo per trovare una soluzione che possa rendere migliore la pellicola": così recita Steven Spielberg, che fin dal primo film “Lo squalo” ha fatto di necessità virtù in caso di difficoltà, sostituendo l’automa meccanico del pescecane, spesso difettoso, con espedienti che hanno regalato sequenze memorabili al pubblico. Con Spielberg entriamo nella ristrettissima cerchia di quei cineasti che hanno saputo coniugare alla perfezione intrattenimento e autorialità, e che appunto per le loro capacità di arrangiarsi hanno permesso al talento di esaltarsi, creando un solco rispetto ad altri colleghi. Chi ha messo mano su Dark Phoenix ha dimostrato di avere meno esperienza e capacità rispetto al regista di Cincinnati: il problema in mano alla Marvel era grosso, ma esso poteva stuzzicare l’ispirazione degli sceneggiatori, che non sono riusciti a venire a capo della situazione, perdendosi in tracce sbrigative e confuse e dimenticandosi di approfondire i Villain. Viene inoltre da chiedersi se "i cattivi" sono così necessari in una vicenda che tende ad affrontare un aspetto introspettivo, che si appoggia su una minaccia presente all’interno del gruppo, e che avrebbe dovuto avere nel lato oscuro dei personaggi un nemico sufficiente da combattere.
Privati dello screen originale di Dark Phoenix come controprova, riscontriamo in questa stagione che ha portato alla conclusione o importanti saghe fantasy, un problema congenito nel saperle terminare efficacemente, lasciando al pubblico un congedo ancora più amaro.
Ma la Fenice merita di rinascere dalle ceneri di questo film, per l’importanza editoriale e soprattutto per il potenziale che la storia ideata da Chris Cleremont possiede. Quello che il grande schermo ci ha mostrato finora è davvero poco rispetto agli spunti, anche visivi, che il fumetto ha dato e che il cinema potrebbe sviluppare. E’ chiaro all’atto pratico che ci si trova di fronte ad effetti visivi che finora nessuno ha ancora realizzato, ma la storia del cinema è piena di opere pensate irrealizzabili. Gli appassionati di Tolkien ricorderanno il maldestro tentativo del seppur bravo Ralph Bakshi di portare a fine anni ’70 una versione animata de “Il Signore degli Anelli” al cinema, un insuccesso visivo e di critica che ha spinto per molto tempo a pensare che fosse impossibile riprodurre il mondo della terra di mezzo su pellicola, ma poi è arrivato Peter Jackson. Stesso discorso può valere per “Dune” e per tanti altri titoli fantasy e sci-fi provenienti dalla letteratura. D’altronde il cinema è l’arte che può illustrare l’impossibile, e se Spielberg è riuscito a sostituire uno squalo con dei bidoni gialli e un tema musicale, non è detto che qualcuno in futuro non possa inventarsi dei magheggi che possano mostrarci gli aspetti visivamente più complessi della saga della Fenice. Ma da offrire non c’è solo quello, e le due pellicole a tema sembrano finora aver grattato solo la superficie della complessa, introspettiva e oscura trama della storia. Non approfondendo adeguatamente la tensione emotiva tra personaggi, e il rapporto con le loro potenzialità, trattando sbrigativamente le vacillanti e ambigue prese di posizione; aspetti molto importanti per un genere, il cinecomics, che ambisce ad essere più maturo.