Un horror al ritmo di Jarmusch: I morti non muoiono
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Sono passati 50 anni da quando Romero li ha portati al cinema, eppure gli zombie vanno sempre alla stessa velocità: piano. Nonostante questo atavico incedere, i vivi continuano a restare intrappolati nelle macchine o nelle abitazioni. Fortunatamente per Jarmusch questa loro andatura si sposa felicemente col ritmo dei suoi lavori, da più di un ventennio parte emersa dell’iceberg del cinema indipendente, che col passare degli anni ha assorbito nomi sempre più importanti (anche il nostro Benigni presenzia in alcuni film) e un nutrito nugolo di guest star provenienti dal mondo della musica. Iggy Pop, RZA e naturalmente il fedele Tom Waits, non disdegnano una comparsata, anche a costo di sottoporre il loro volto al make-up per tramutarsi in zombie. L’apporto di tutto ciò che proviene dalla musica d’altronde è troppo importante per Jarmusch, tanto che è proprio il brano pilota e title track della pellicola “The death don’t die” di Sturgill Simpson a creare il sottile filo conduttore a cui la vicenda si aggrappa. Il brano viene citato continuamente, anche quando è fuori luogo, e mostrato in maniera ammiccante sotto forma fisica di CD musicale. E’ così che esso perde il suo spunto narrativo iniziale divenendo uno degli svariati mezzi con cui Jarmusch decide di sfondare la quarta parete che divide il film dal suo esterno. I personaggi dialogano indirettamente col pubblico, attraverso le numerose citazioni horror e il nutrito carnet di tormentoni ripetuti allo sfinimento dai diversi interpreti, i riferimenti alla saga di Star Wars in cui recita uno dei due protagonisti Adam Driver, e le lamentele dirette e personali dell’altro (Bill Murray) verso il regista, completano il tutto.
Che ci sia qualcosa di insolito all’orizzonte lo scopriamo quasi subito, non tanto per gli insoliti fenomeni fisici alla base dello scenario preapocalittico in cui si muove la storia (e che non sembrano preoccupare molto gli interpreti), quanto per la volontà di Jarmusch di realizzare qualcosa di diverso dalla “solita storia di zombie”, mantenendo però la matrice della “solita storia di zombie”. Una sorta di parodia dallo sguardo distaccato, che si avvicina molto alla maniera di fare cinema di Wes Anderson e dei fratelli Cohen, ma che per l’autocompiacenza della palese finzione messa in mostra ammicca ai primissimi horror caserecci di Peter Jackson. L’intenzione di Jarmusch non è di ridicolizzare un certo tipo di cinema, ma piuttosto di omaggiarlo: dissacrando con sapienza e velatamente, in modo da creare una sorta di scrematura che tenda a respingere chi non ha apprezzato l’autorialità di Romero, e che di conseguenza non può comprendere il gusto di questa sua rivisitazione. Jarmusch spiega subito le regole del gioco: dopo un breve giro d’auto coi due poliziotti protagonisti (Murray, Driver) e le indecifrabili azioni dell’eremita (Tom Waits), viene delineato uno scenario che avrà i suoi luoghi predefiniti, illustrati prontamente da una carrellata. Sono i classici scorci della provincia americana, che Edward Hopper coi suoi quadri ha cercato di arricchire di significato, ma che i b-movies hanno concretamente diffuso, assieme alla fauna che lo popola. Come le bariste della tavola calda e i clienti ultraconservatori, i gestori delle pompe di benzina e i poliziotti tuttofare; un usato sicuro dove non possono mancare i consueti ragazzi di città destinati a diventare carne da macello, arricchito da un elemento destabilizzante, alieno, e praticamente indecifrabile. Jarmusch si gioca il jolly, cucendo addosso alla già enigmatica Tilda Swinton un personaggio talmente misterioso, particolare e imprevisto, da non possedere reali antenati nel passato cinematografico, affidandogli il compito di depistare il pubblico.
I morti non muoiono o sono i vivi ad essere già morti? Non manca una frecciatina, piuttosto scontata ma comunque divertente, alle abitudini e alle debolezze della società contemporanea: già morta secondo Jarmusch, che vaga per le strade cercando spasmodicamente una rete wi-fi o del caffè, mantenendo così le care consuetudini anche da trapassati, non rinunciando alla cura per la moda o alle attività preferite. E’ questo forse il cenno più impegnato della pellicola, che pare divertirsi a ricercare e ripercorrere i clichè del genere, per poi poterli ribaltare completamente. In tal senso è eloquente la consueta riproposizione del momento in cui i “vivi” vengono intrappolati nell’auto circondata dai mostri; in questo caso la sequenza è completamente priva di tensione e carica di surreale, dove la calme discussioni e digressioni tra i due protagonisti all’interno del veicolo, sull’inevitabilità degli eventi e le scelte del regista, contrastano col terrore della collega seduta sul retro, e soprattutto col caos generato dagli zombie all’esterno.
Il regista riesce a coniugare un ritmo che viaggia placido come le acque sui cui si muove l’imbarcazione del suo “Dead Man”, con un numero davvero considerevole di situazioni, sfruttando appieno il potenziale di sequenze che possono apparire vuote, ma che sono indispensabili per dettare i tempi a un film che non ha bisogno di cercare una soluzione al suo enigma, quella la si conosce già da subito, che non ha fretta di arrivare a una conclusione inevitabile, ma che vuole semplicemente camminare alla sua velocità: piano.