Con “Il signor Diavolo” Avati torna alla paura
Dopo il carosello dei loghi delle case di produzione, si comincia ex abrupto, con inquadrature di una camera infantile, di notte. Zero dissolvenze, zero espedienti grafici o transizioni d’altro tipo. Inizia una sequenza di apertura piuttosto breve, che sembra un omaggio esplicito al capolavoro di Dario Argento, Profondo Rosso, tanto il suo schema è simile. Là, una nenia infantile, una stanza addobbata per le feste natalizie, un brutale omicidio evocato da delle ombre, le scarpe di un bambino che entrano in campo, nei pressi del coltello insanguinato. Qui ancora la nenia infantile, una camera da letto di notte, una culla con un neonato che dorme, un bambino in maschera che entra e lo sbrana. Una violenza evocata, con una scena che ricorda anche qualcosa delle aggressioni di It. Quando si leva dalla culla, il sangue sgocciola da un viso che si intravede animalesco, con zanne inquietanti. Sul fotogramma del tappeto sporco di sangue scorrono i titoli di testa. La prima cosa che salta agli occhi fin qui a un qualsiasi cinefilo, e che caratterizza tutto il film, è la sua perfetta aderenza agli schemi del cinema di genere anni ’70. Questo film potrebbe tranquillamente essere uscito l’anno dopo “La casa delle finestre che ridono” e in effetti, per molti versi, ne costituisce una variazione su tema. Pupi Avati è tornato a casa, è tornato alle origini ed ha riproposto agli appassionati un saggio di quel gotico padano di cui è stato maestro indiscusso.
Un mistero legato alla religiosità popolare
Il film racconta la storia di un omicidio delicato, quello di un ragazzino ai danni di un coetaneo, su cui un funzionario del ministero è incaricato di fare luce. Un’indagine che si trasformerà in un viaggio nell’incubo, alla scoperta del misterioso personaggio dell’assassinato, Emilio, un ragazzo deforme, che in paese sono convinti essere il figlio del diavolo, del “Signor Diavolo” perché, come dice il sacrestano, il male va trattato con rispetto.
In interviste e articoli ha lamentato la difficoltà di finanziare e distribuire il progetto e si nota, in un minutaggio ridotto (90 minuti) che costringe la storia, narrata diffusamente nel romanzo pubblicato da Avati lo scorso anno, in una gabbia troppo oppressiva, con occasionali lacune e punti oscuri non facili da chiarire per lo spettatore. Si nota anche per l’artigianalità e la spartanità dei mezzi usati, ma questo va a merito del regista e dei suoi collaboratori. Il film infatti coglie nel segno, mantiene sempre desta l’attenzione con una messa in scena curata nei minimi dettagli, senza mai indulgere nel grand guignol e nella violenza gratuita, e con una scrittura intelligente, pur, appunto, coi limiti del caso già citati.
Un film intelligente e riuscito, con i classici stilemi di Avati
Per il pubblico generalista è un film godibile, non un capolavoro ma un titolo di ottimo livello, che merita un posto di rilievo nella filmografia di Pupi Avati. Gli appassionati del regista bolognese ritrovano tutti i caratteri della sua poetica: l’ambientazione di provincia, l’attenzione ai volti popolani, la collezione di aneddoti e storie della tradizione popolare. Lo sguardo e la suggestione dell’infanzia sul mondo circostante. La pellicola resta perennemente sospesa tra sovrannaturale e suggestione senza apparentemente mai decidere se diventare una storia di demoni o di oscurantismo e superstizione, in grado di rovinare e distruggere la vita di un diverso, di un reietto del mondo. Avati non decide, non scioglie le ambiguità di questa storia, per mantenerne intatto il fascino e la suggestione: senza dubbio sono questi due elementi a costituire il primo obiettivo del film, più che lo scioglimento della trama e di tutti i suoi nodi.