Woody Allen: La fabbrica della commedia sofisticata
Quando ci troviamo al cospetto di Woody Allen sappiamo già di andare incontro a qualcosa di inconfondibile, quasi un marchio di fabbrica, la cui certificazione di qualità è apposta dagli innumerevoli capolavori di una carriera. L’amata musica jazz di accompagnamento ai titoli di testa, rigorosamente per ogni film dello stesso carattere posti su sfondo nero, ci lascia intuire l’ingresso all’interno del suo territorio. Una firma posta all’inizio di opere stilisticamente identificabili alla sua figura, in uno spazio cinematografico di comprovato successo di pubblico e apprezzamento critico. Lo stampo Allen funziona, piace e come qualunque cosa che abbia successo è soggetta a molteplici tentativi di imitazione, l’uscita rituale dei suoi titoli ci culla e ci conforta, ma offre anche l’altro lato della medaglia. Infatti il connubio tra ispirazione artistica e metodo intensivo di produzione sta sempre più virando verso il secondo, se in passato questi due aspetti riuscivano felicemente a coesistere, ora appare non essere più così. Il rischio di ripetersi o di offrire opere rilasciate prematuramente è sempre alto, e il peso stesso del nome rischia di schiacciare Allen sotto il macigno dell’aspettativa, che pubblico e critica riservano ad ogni suo titolo in uscita. Il tratto stilistico ha resistito negli anni, ma la verve sembra essersi spenta, non tanto per un’ispirazione in fase di esaurimento, quanto per l’impossibilità della stessa di avere quel respiro necessario che tempistiche e scadenze gli vengono a negare. La fabbrica Allen deve continuare a produrre opere, che sempre meno assomigliano a capolavori della commedia sofisticata e sempre più a blockbuster d’autore, di cui forse il pubblico sente troppo bisogno di poter fruire e Allen di realizzare.
TRAMA
Le gite in carrozza a Central Park, i ristoranti di lusso e le sale d’arte, oltre alla possibilità di intervistare il grande regista Pollard per il giornale del college. I giovani Gatsby e Ashleigh non possono chiedere di meglio per il loro fine settimana a New York, ma i piani dei due verranno stravolti proprio dalla città stessa, in una giornata di pioggia.
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Tre personaggi principali più uno, New York, sullo sfondo una scenografia di interpreti di lusso, poco più che comparse dalle complesse fisime e dalle sfaccettate e ingombranti personalità. E’ questo l’allestimento che Allen adotta per raccontare il weekend stravolto dei giovani Gatsby e Ashleigh. I piani sono rovinati dalla stessa città, elevata a ruolo di personaggio, attraverso i suoi umori espressi dai mutamenti metereologici, che regalano al tessuto urbano quelle atmosfere che Gatsby fortemente invoca. Gli anni 20/30, espressione massima del fermento culturale newyorchese, riscontrabile ancora in sparuti e fedeli ritrovi: i ristoranti di lusso e i caffè, le sale d’arte e i parchi, e ancor meglio se questi ambienti sono innaffiati da una fitta pioggia autunnale. Gatsby: sufficientemente acerbo per potersi permettere errori, e provare ammirazione per epoche non vissute, è al contempo troppo giovane per poterle conoscere così a fondo. In questa sua conoscenza possiamo riscontrare quanto Allen voglia trasformarlo in un suo autoritratto, un corpo con dentro l’anima del regista, a cui incollare addosso, oltre ad un nome tanto simbolico, anche tutte le derivazioni e passioni: i libri di Scott Fitzegarld e le note di Gershwin, suonate proprio sui tasti del pianoforte del caffè frequentato dal compositore.
Allen propone una versione addomesticata di Midnight in Paris, priva però di quel fascino retrò e onirico che avevano conferito valore alla pellicola, in favore di una disillusione che ci propone un certo distacco del regista della New York contemporanea, incapace di riflettere quelle atmosfere se non in luoghi e momenti specifici.
Le due coprotagoniste Ashleigh e Shannon completano lo schema del triangolo sentimentale, con aspetti caratteriali diametralmente opposti, la prima: stereotipo della perfetta provinciale, ingenua ed entusiasta viene letteralmente rapita dalla New York contemporanea, dal suo star system assetato di spensieratezza e spontaneità. Una musa di purezza tentata dal regista Pollard e dall’attore sex symbol Francisco Vega. Di controcanto Shannon: sofisticata e compassata, trae forza da quella pioggia romantica che crea invece tanto imbarazzo ad Ashleigh. Newyorchese come Gatsby, i due però si odiano formalmente (lui è un ex della sorella maggiore) ma viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda, e ben presto si avvicinano. Con loro Allen ripropone il modello della coppia emancipata, uno dei cavalli di battaglia del regista, proiettandolo in un XXI secolo che appare appartenergli sempre meno. La nutrita fauna di personaggi di contorno ci offre una New York contemporanea satura del suo conformismo culturale ma al contempo assuefatta dallo stesso, il desiderio di cambiare aria e volare in Europa, o ancor meglio a Parigi, nella speranza di ritrovare ispirazione, viene soffocato dai party vip.
Con Midnight in Paris Allen ha espresso un desiderio, entrando nel sogno del ventennio della “Generazione perduta”, ora qui abbiamo il suo risveglio. Il sogno però ha lasciato tracce, matrici della nostalgia e del disagio di Gatsby, a cui il regista si associa per descrivere il suo sentimento verso la New York attuale. Il giovane si sente inadeguato all’ambiente familiare troppo pretenzioso, tanto da dover affittare una escort per non sfigurare al galà dei genitori, ed è in perenne fuga da loro. Quasi tutti i personaggi secondari scappano anche loro da qualcuno o da qualcosa: dalle relazioni o dall’ambiente di lavoro. Persino gli artisti paiono errare continuamente: via da Soho perché troppo costosa, e poi via anche da Tribeca, ma d’altronde anche Gatsby cambia università di continuo.
Sono molteplici le sotto tracce che Allen sviluppa a contorno della trama principale, usando un tratto stilistico tipico del suo cinema, che consiste nel non mostrare direttamente con immagini l’evolversi delle situazioni, ma ricostruendole nei dialoghi compiuti anche da terze persone, come la fuga del regista Pollard o l’appuntamento col medico/fidanzato di Shannon (che non ci viene mai mostrato). Allen attinge ai punti di forza del suo cinema, per un suo nuovo affresco newyorchese, tuttavia se l’opera è concettualmente giusta, appare per molti aspetti inconcludente e sviluppata sbrigativamente.