Il pericolo c’è ma non si vede. Forse è il danno maggiore portato dall’eccesso di plastica che inquina il pianeta. Siamo spaventati dai suoi effetti più visibili, dai cumuli di rifiuti che permangono per anni, indistruttibili, nei prati o nei mari e che ci danno la sensazione fisica dell’invasività di questo materiale non correttamente riciclato. Eppure c’è anche un secondo risvolto del problema, più insidioso. Quello delle microplastiche. Ce lo racconta Monica Vivalda, giovane monregalese che si è laureata in scienze biologiche all’Università di Genova proprio su questo tema. «La mia tesi era proprio incentrata sugli effetti delle microplastiche sui piccoli pelagici, in particolare sul pesce azzurro, le acciughe in sostanza. Mi sono occupata di analizzare il contenuto dello stomaco di questi pesci: in molti esemplari si trovano numerosi frammenti di plastica, le cui dimensioni non raggiungono i cinque millimetri. I pesci li ingeriscono perché li confondono con i copepodi, di cui abitualmente si nutrono, sono trasparenti. Questo è un grave danno, un po’ perché nascono molti meno pesci, con danno per la natura e per la pesca, e poi perché i pesci sono inquinati. Un uomo che consumi abitualmente pesce in questo modo può arrivare a ingerire fino a 11.000 frammenti di microplastica». Questi frammenti di microplastica da dove vengono? La risposta è sconfortante, perché non sono solo derivati dai rifiuti. «Esistono due tipi di microplastiche: le cosiddette primarie, che sono derivate dall’usura di oggetti come copertoni di automobili, cartelli stradali, abbigliamento in fibra sintetica e tanti altri oggetti di uso comune. Con il tempo perdono dei frammenti microscopici che spesso finiscono nelle acque dei fiumi o dei mari, con le conseguenze che abbiamo descritto. Le secondarie sono derivate dal deterioramento dei rifiuti invece, e sono quindi frutto di decine di anni di plastiche abbandonate che si deteriorano nell’ambiente. Ad esempio le microplastiche che inquinano i nostri mari oggi sono sostanzialmente i rifiuti abbandonati negli anni Sessanta. Questo significa che i risultati del boom plastico degli ultimi anni li vedremo tra diverso tempo. Ecco perché è così importante ridurre ora il consumo di plastica». Al problema delle microplastiche primarie e secondarie non si può proporre una soluzione unitaria. «Per il secondo tipo, l’unica cosa da fare è ridurre il più possibile il consumo di plastica e riciclare, evitando la dispersione dei rifiuti nell’ambiente. Per il primo è necessario in parte fare a meno della plastica quando è possibile (ad esempio privilegiando magari giocattoli di legno), ma chiaramente è irrealistico pensare di rinunciare del tutto a un materiale comunque molto utile e in certi casi indispensabile. Così sono attivi dei progetti di ripulitura dei mari, ad esempio quello di Boyan Slat, che è un ragazzo olandese molto giovane che ha fondato il progetto “The Ocean Cleanup”, che si prefigge appunto di eliminare la plastica dagli oceani del mondo. Tra i suoi progetti c’è la creazione di una piattaforma dotata di uno schermo in grado di raccogliere i rifiuti e ripulire i tratti di mare che attraversa». Il danno che la plastica arreca all’ambiente marino è incalcolabile: «Sono più di 114 le specie che subiscono danni da inquinamento da plastica, oltre ai pesci ci sono anche i gamberi, le cozze, gli insetti. La microplastica danneggia i pesci più piccoli, i rifiuti di maggiori dimensioni creano problemi anche agli animali di maggiori dimensioni. Uno degli aspetti peggiori è che la plastica agisce come una spugna, si arricchisce di sostanze dannose e poi quando viene ingerita scatena tutto il suo potenziale nocivo, come una specie di bomba di veleni».
Le acciughe e altri pesci ingeriscono microplastiche scambiandole per copepodi. Una persona che consumi abitualmente pesce può ingerire fino a 11.000 frammenti di plastica, con effetti nocivi sull’organismo
La biologa monregalese ha analizzato il contenuto dello stomaco delle acciuge: in molti esemplari si trovano numerosi frammenti di plastica. Si tratta di materiali risalenti agli anni ‘60. I risultati della plastica di oggi li vedremo tra 50 anni