L’appello: Capodanno a settembre

La vigilia del primo giorno di scuola è come la notte di San Silvestro. Arrivano auguri di Buon Anno da ogni fronte. Perché la scuola, checché se ne dica, riguarda tutti. E’ il preludio di un nuovo ciclo, inaugura la stagione dell’impegno, degli orari, il ritorno alla routine settimanale per famiglie che, dopo tre mesi di anarchia estiva, riusciranno a dare un corso più ordinato alle giornate dei figli. I ragazzi sono contenti il primo giorno di scuola. Persino quelli che se potessero darebbero fuoco a scuola e professori, il primo giorno sono agnellini, che non vedono l’ ora di risedersi nel banco, sapendo che tanto mica si metteranno a interrogare il primo giorno, no? E quindi godiamocelo questo primo giorno. I più emozionati, a volte, sono proprio i professori. Perché se il pensare comune è convinto che i professori facciano questo mestiere perché ci sono tre mesi di vacanza (che poi non è, ma ne parliamo un’altra volta), in realtà sono felici di tornare e vedere se quanto seminato ha iniziato a dare qualche timido frutto. Ma soprattutto il primo giorno è quello delle classi prime. E’ l’inizio dell’inizio. Il suono della campanella, dopo mesi di silenzio fa aprire il sipario su uno scenario nuovo, fatto di occhi attenti con mille punti interrogativi che scintillano silenziosi. Otto e trenta: tutti in piedi, cantava Venditti. Entra il professore e ci si alza, perché, sì, ci si alza ancora. Ma non perché serva un gesto inutilmente ossequioso. E’ il riconoscimento dei ruoli. Alzarsi in piedi, all’inizio della lezione, è come dire: siamo pronti, ognuno col suo ruolo. Saliamo a bordo della nave scuola come un equipaggio che naviga nella stessa direzione. E poi arriva il saluto iniziale, quel coro di “buongiorno” che gli allievi da questo momento in poi utilizzeranno sempre, fosse anche alla messa di mezzanotte. Sorrido e chiedo loro di fare altrettanto. Questa è la prima regola: la scuola è una bella avventura, niente musi lunghi in classe. La serietà non fa a pugni col sorriso, anzi. E ora, l’ appello. Impugno il tablet e ad ogni nome pronunciato, si alza una mano. Guardo quel volto chiedendomi quanto tempo mi ci vorrà per abbinarlo correttamente a quel nome. Guardo quei giovani virgulti uno a uno con lo stato d’animo del contadino che sta per seminare pregustando i frutti della terra. Ho gli occhi lucidi e tra le mani il senso di una meravigliosa responsabilità. Perché quegli sguardi, anche quelli in cui si intravede il gusto in futuro di sfidarti, tradiscono tutti lo stesso bisogno: essere accolti, accuditi e amati.