La pinacoteca di Alessandria

La mostra in Antico Palazzo di Città dell’artista Franco Sebastiano Alessandria è una interessante occasione di incontro con la sua arte, finora non ancora esposta in città. L’autore è sia pittore che scultore, e la mostra riflette tale duplicità con una presenza significativa di entrambe le produzioni. Cronologicamente, il percorso dell’autore parte dalla pittura, come si evince anche dai cataloghi che documentano la sua produzione, “Time Out” (per la pittura) e “Bonne Route!” (per la scultura). Seguendo questo percorso, notiamo come le prime opere dell’artista (classe 1958) iniziano con intensi ritratti del padre, in un figurativo tutto sommato tradizionale, nel 1980 (nel 2000, a questo sentito soggetto sarà dedicato anche un busto in terracotta).

Olio su tela cm 50 x 40
Seguono altri ritratti di uomini di Langa e famigliari (particolarmente intenso quello della moglie, nel 1981, dove si inizia a cogliere forse una prima tensione “metafisica” che poi sfocerà in una aperta scelta surreale). Del 1982 alcune prime opere che compiono il salto verso la surrealtà, dunque: “L’uomo colto dell’era del consumismo” riparte dall’erudito effigiato dall’Arcimboldi sul finire del ‘500, e in modo simile coglie la crisi dell’intellettuale – ovviamente nella differente epoca. Pur nella critica che inizia a emergere (significativamente, siamo negli anni ’80 dell’edonismo reaganiano) abbiamo ancora una presenza visiva tutto sommato semplice, dove l’intellettuale, nella tolda della sua stanzetta riscaldata da un termosifone, legge uno spartito vuoto mentre intorno infuria la bufera. Di quest’anno è anche l’autoritratto – esposto in mostra – che vede l’artista incatenato come tutti al proprio codice fiscale (viene in mente il Croce, che definì il “Fu Mattia Pascal” come “tragedia dello stato civile”: fuori da quello, non esistiamo), la mente assediata, se non colonizzata, dai marchi, dal denaro, dalla fabbrica, dal tempo che fugge, dall’evasione – l’ombrellone, dalla minaccia nucleare (tutti elementi che ritornano nella sua produzione). Il tema del Tempus Fugit torna nel drammatico e personale “L’ora” (1984, in mostra), con accenni dechirichiani negli uomini dal volto d’orologio, mentre nel 1985, con “Capolinea”, appare un’altra figura ricorrente, quella dell’uomo-ingranaggio, dal cuore di pietra – letteralmente – cubica. Una sintesi dove sembra iniziare una transizione da Arcimboldi a Dalì (evocato forse nei sottili baffi arcuati della figura).

Olio su tavola cm 90 x 64.
L’Uomo-ingranaggio sembra rappresentare “ciò che sta dietro” all’incessante “tempo dell’orologio”, il tempo artificiale della società che imbriglia l’uomo (viene in mente il “Metropolis” di Lang, analogicamente). Una ipotesi che si precisa meglio nell’Arrivista (1987), dove i simbolismi dello yuppie anni ’80 sono tutti presentati e decostruiti. La camici è composta di scontrini, gli occhiali sono quadranti di orologio, il volto ingranaggi, in mano stringe l’Oro e un biglietto da centomila lire (un “Caravaggio”, forse anche con rimando analogico e ironico al nobile artista ivi effigiato). La cravatta è impiccata a un perno che sta crollando, evidenziandone la natura di “cravattaro” (l’impiccagione rituale e simbolica è rito che rimanda anche a certi rituali paramassonici); la foto dei propri cari è rovesciata. Ne “Il burattinaio” (1990) tale tema è ampliato, rendendo l’uomo-denaro il marionettista delle vite di tutti. Affiora in alcune opere, nei ’90, anche un’eco di Magritte, specie nei quadri più intrisi di levità, come in “Cose belle e brutte” (1990, in mostra) dove c’è una compresenza di elementi materialistici, negativi, e altri positivi, volti all’elevazione. Molto interessante e ricco segnicamente “La nostra società” (1992), significativamente nell’anno di Tangentopoli. Non mancano tra le righe alcuni elementi sottilmente esoterici: in “Un po’ di pace” si evoca Stonehenge, in Vida por vida (2000) l’altare sacrificale dei Maya, il Chak-Mol. In altre opere fa a volta la sua comparsa la squadra e compasso massonico. Nel 2000 intanto fa la sua apparizione anche il tema della chiave, che sarà centrale nella produzione scultorea: ad esempio, notevole la croce fatta di chiavi in “Piccoli e grandi misteri”. La chiave è, ovviamente, “chiave di lettura”, di comprensione, strumento per aprire ai misteri superiori della psiche e del cosmo (tema anche ermetico, nella Clavicula Salomonis e dintorni). L’uomo di chiavi (2000) anticipa le sculture claviformi presentate in “Bonne route” (2014), che parte dal dono di 10.000 chiavi antiche dal Marocco, come spiegato nell’introduzione. Alessandria inizia quindi questa nuova produzione (che è possibile vedere anche in luoghi pubblici, come a Piozzo (dove l’artista vive), dove sua è la nota scultura che effigia la zucca, tipica di questi luoghi. Si tratta di opere di grande bellezza ed equilibrio formale, che spingono l’osservatore a soffermarsi sul mistero indecifrabile dell’uomo: di particolare impatto, forse, in uno scenario aperto che funga da adeguata cornice, ma si possono comunque apprezzare anche qui. Insomma, una esposizione interessante, che consigliamo di visitare durante il suo periodo monregalese.