C’è sempre un lato positivo

Quel mercoledì sera, mi sono seduta a tavola pronta a godermi la mia cena col telegiornale in sottofondo e in primo piano le notizie sulla curva contagi. La minestra è particolarmente sciapa. Aggiungo sale, ma il mio palato non avverte alcuna soddisfazione. Intanto sento il Tg descrivere ancora una volta i sintomi più evidenti della malattia, quando, il mio cucchiaio a mezz’aria, sento descrivere l’ assenza di gusto e olfatto come una delle sintomatologie più caratteristiche del covid. Un brivido lungo la schiena; ma no, avrò scordato di mettere il sale. Vediamo se l’olfatto funziona. Prendo un pezzo di gorgonzola. Annusato: nessun odore pervenuto. Assaggiato: nessun sapore pervenuto. Non è colpa del sale. Sto bene: nessun altro sintomo riconducibile alla malattia. Ma l’assoluta e improvvisa sparizione di ogni facoltà sensoriale legata a odori e sapori. Il giorno dopo non vado a scuola e corro dal medico, che, come previsto, richiede un tampone. Il mio status di insegnante mi concede la corsia preferenziale del drive in ospedaliero senza prenotazione alcuna. Al mattino presto, in coda sulla mia auto, aspetto il mio turno. Un omino a metà strada tra un uomo del RIS e un astronauta mi chiede perché sono lì. “Sono un’in- segnante e …” non mi lascia neppure finire e mi dice di proseguire. Un altro astronauta si avvicina. Abbassato il finestrino mi sporge una provetta chiedendomi di verificare i miei dati. Da ciò che emerge dai suoi occhi capisco che mi sta sorridendo e, rincuorata dal fatto che dietro quei paraventi batta un cuore umano, mi preparo all’invasione barbarica nel mie narici. “Si rilassi”, dice l’astronauta. Reclino la testa e in un attimo il tampone è fatto: spiacevole, lacrimevole, ma veloce. Da lì verso l’eremo di casa mia, in isolamento. Nel frattempo il nuovo DPCM ufficializza la DAD dal 75% al 100% per le scuole superiori, ma per me, che sono in mutua, non è possibile neppure la didattica a distanza. E’ domenica pomeriggio e il mio medico mi comunica che sono positiva. Da lì è come se diffondessi un bollettino di guerra. Sono preoccupata per mio padre, 86 anni e un quadro fragile e che ho visto il giorno prima della comparsa dei sintomi. Il medico lo segnala come contatto stretto e, la domenica pomeriggio stessa, una squadra dell’USCA si reca da lui per visita e tampone a domicilio. Me la immagino la scena: mio padre che dice “avanti avanti, accomodatevi”, senza sapere chi siano e perché siano lì. Tra un’imprecazione e l’altra (di mio padre) gli fanno il tampone, mentre la notizia della mia positività allerta il Liceo in cui insegno: le mie 5 classi in isolamento, questo è il protocollo. Le mie tre migliori amiche si adoperano per lasciarmi la spesa sotto casa o fare commissioni urgenti, mentre io, dalla finestra della mia torre di avorio, le saluto, grata che esistano. Poi il secondo tampone. Un astronauta, un po’ meno sorridente, mi ha esplorato, un po’ più allegramente, la cavità nasale, cosa che mi provoca un’epistassi fino a casa. Ed ora attendo l’esito, pregando che sia negativo. Non sarà una festa, siamo in semi lockdown; ma potrò gioire di salutare mio padre, fare la spesa e fare lezione.
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