“Daje con il romanesco”
La storia, che già nun è ‘na storia pe’ davvero; più un mito, ‘na leggenda. Narra che la nascita della città sia avvenuta da du’ fratelli: se voleveno bene, se amaveno alla follia, talmente tanto da creare du’ fazioni contrapposte che hanno finito co’ l’ammazzasse. Una città de pecorari, e de pecoroni, che s’è trasformata in un Impero, che ha dato alla storia – dopo i pensatori greci – ingegneri e militari, ma che ancora oggi sta alla base del diritto su cui poggeno bona parte de li Stati moderni. So’ passati quasi tremila anni ed è ancora la metropoli – capitale di uno Stato – meno industriale e più selvatica in Europa; l’unica ad avere uno Stato al proprio interno ed essere considerata uno Stato a sé. Roma è così, ‘na città meravigliosa, ma allo stesso tempo complicata, piena de bellezza e de cagnara, ma pure traggica, libera e faziosa; papalina e reazionaria, ironica e coraggiosa, serva e libera. È ‘na città dove i suoi abitanti ne seguono i connotati, sorniona e un po’ spocchiosa, ma verace e altrettanto sincera. Non è ‘n caso che nelle arti, ne la musica, così come nel cinema o nel teatro, la stragrande degli interpreti ricalchino e ne raccontino le gesta e le virtù, ma spesso e volentieri pure i lati più oscuri e neri (come cantava Edoardo De Angelis della Schola Cantorum in “Lella”).
Se Alberto Sordi ha oltrepassato i confini der Tevere autori come Luigi Magni o il primo Venditti, ne raccontano e sintetizzano in modo puntuale l’animo più puro; da Pasquino a Sora Rosa, dalla canzone popolare alle storie d’amore e de cortelli, da quelle “in nome del Papa Re” alla prima Repubblica “In Nome del Popolo Sovrano”, passando per i fratelli Catone o i personaggi di Verdone e la figura della nonna per eccellenza, la grande cuoca Sora Lella Fabrizi. I romani hanno sempre voluto fare un po’ come je pareva, ma anche un po’ come j’annava de fa; un po’ come la stessa lingua, un dialetto che nun se sente più, che è diventata ‘na calata, ma che torna e rimbarza, come quer pallone che tanto unisce e divide; come “Quer pasticciaccio brutto”, che Gadda traduce in contenuto e forma. Chi la riesce ad inquadrare con uno sguardo innamorato ma anche distante, è un friulano di nome Pierpaolo Pasolini, gli altri, specie se autoctoni, o la incensano, troppo, o la pijano a sganassoni, eccessivamente. Roma è come una donna, che va corteggiata, ma manco tanto, perché se je gira, pija e se ne va. Garinei e Giovannini lo sanno bene quando le chiedono ‘na mano a faje dì de sì, o de no, tra grilli e il ponentino delle sere d’estate; quella stessa aria che se porta dietro il viso della Magnani, donna e femmina, che ha sempre benedetto le proprie rughe, conquistate con grande sacrificio, una ad una; prima diva, e donna del popolo. Roma è capitale, ma pure agreste; se a Milano si spara, Roma è “a mano armata”. Il vero romano è quello che almeno ‘na vorta ha carcato la soglia de casa, al 29 de la Lungara (Regina Coeli, ndr), ma è pure quello che, come pò, sale sulla Scala a San Giovanni, passa pe’ la Porta Santa o va ‘n processione al Divin Amore.
Potrebbe sembrare una Roma lontana, antica, quella che leggiamo; si potrebbe pensare che questo sia un affresco troppo pieno di ricordi; in realtà ancora oggi, le nuove generazioni, da ZeroCalcare a Rancore, si appoggiano, come hanno fatto pochi anni prima i Luca Barbarossa, i Daniele Silvestri o i Manetti Brothers, alla stessa identica tradizione; una tradizione che muta sè stessa, ma che alla fine è sempre la stessa ricetta, come la pasta che tanto ce piace; per scoprisse o riscoprirsi un po’, ma in fin dei conti per non cambiare mai; così, Tanto pe’ Cantà.
Il romanesco da Trilussa a Gadda
Il romanesco da Trilussa a Gadda
Il romanesco da Trilussa a Gadda