Riguardando oggi “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino”, impressiona, oltre al significato morale dell’opera, il contesto in cui la vicenda viene a svolgersi. Una Germania profondamente diversa rispetto a quella dell’immaginario attuale. I quartieri dormitorio e l’underground degradato, dove si muovono le esistenze di giovani apparentemente senza opportunità, sedotti dalle peggiori deviazioni delle mode momento. Il film è l’adattamento della nota autobiografia Christiane F. pubblicata nel 1978, e colpì per la giovanissima età dei suoi protagonisti: precocissimi tossicodipendenti costretti a vendersi per una dose, fino ad arrivare alla completa autodistruzione. Il film uscì in sala nel 1981 in apertura di un decennio che vedrà profondi cambiamenti nella Germania. Divenendo il titolo di maggiore visibilità tra quelli prodotti nel Paese al tempo; in un periodo contraddistinto dal Nuovo Cinema Tedesco, ispirato al neorealismo italiano e alla nouvelle vague francese, ma ormai agli sgoccioli. Probabilmente a causa anche della tragica scomparsa, nel 1982, di uno degli autori di maggiore influenza: Rainer Werner Fassbinder. Il teatro, la televisione e il cinema attraversati dalla metà degli anni ‘60 in una produzione ingorda e senza soste, per Fassbinder il cinema è sofferenza e dolore, ma anche attacco alla borghesia e ai benpensanti. La sua è un’esistenza travagliata, di genialità ed eccessi, una diretta simbiosi con il momento storico che lo ha accompagnato e che è destinato ad estinguersi con lui. Il processo di autodistruzione lo associa in qualche modo ai molti ragazzi dello Zoo, che come lui non vedranno i profondi cambiamenti che attendono la Germania dietro l’angolo. A testimoniarli saranno altri autori coetanei, come Werner Herzog e Wim Wenders, fondamentali narratori del dopoguerra tedesco, e ancora più nello specifico Edgar Reitz, con la fondamentale epopea di Heimat. Herzog e Wenders sono tra i pochi autori del periodo, artisticamente sopravvissuti, forse per la capacità di organizzarsi in stilemi indipendenti, attingendo dalle molteplici correnti attraversate, senza però venirne assorbiti completamente. Ad Herzog il merito di amalgamare documentario e finzione in un unico contenitore, a Wenders con “Il cielo sopra Berlino” l’onore di regalare una sublime appendice, a quel tipo di cinema, gustato fino pochi anni prima.