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sabato 25 Gennaio 2025     Accedi

Il Museo della Ceramica di Mondovì in quattro reperti


Raccontare un museo in quattro reperti. Non necessariamente i più significativi, né quelli di maggior successo di pubblico. Non facciamo classifiche, ma ci interessano storie, curiosità, percorsi culturali. Così il Culture Club 51 visita un museo e ciascun collaboratore sceglie di raccontare l'oggetto che lo colpisce di più: per la sua storia, ma anche e soprattutto per la sua capacità di innescare altre storie. È sorprendente scoprire quanto lontano possa portare un qualsiasi oggetto che si incontra nelle sale di un museo. Ed è ancora più meraviglioso scoprire quali stravaganti curiosità e quali oggetti straordinari possano celarsi nelle sale di un qualsiasi museo del nostro territorio, anche magari dedicato ad argomenti sulla carta lontani dal nostro interesse. Sono ricchezze culturali che meritano di essere conosciute e valorizzate, dai monregalesi prima ancora che dai visitatori esterni.

Quando la ceramica è un videogame

Vassoio, terraglia tenera, manifattura “Felice Musso” “Il follone” 1879-1897 Decorazione stampata con motivo a willow pattern

di LORENZO BARBERIS

Il servizio Willow Pattern, a saperlo indagare, cela qualcosa di sorprendente e molto pop. Il motivo decorativo “del salice” nasce sulle antiche ceramiche cinesi, e nel ‘700 è ripreso da quelle inglesi. Alla base c’è un’antica fiaba cinese: un ricco mandarino ha una figlia bellissima, innamorata del suo umile contabile. Egli li separa, rabbioso, e la promette in sposa a un duca: i due però riescono a scappare insieme e vivere felici finché il duca non li trova per ucciderli. Allora gli dei li tramutano in due colombe. La storia viene anche portata a teatro, come operetta (1901), poi nel cinema muto, nel 1914. Qui però c’è l’elemento sorprendente: “Willow Pattern”, infatti, verso la fine della sua storia, diviene qualcosa di inatteso. Nel 1985 viene realizzato un videogame: un adventure dinamico, ambientato in Oriente, che riprende la leggenda cinese per varie consolle, dal Commodore 64 allo Spectrum. Il 1985 è l’anno del grande interesse per le avventure grafiche: la Cinemaware realizza “Defenders of the crown”, con Robin Hood, la Lucasfilm produrrà “Labyrinth” (1986), dal film omonimo. C’è l’idea esaltante che il videogioco possa superare la mera sfida di abilità e diventare cinema interattivo, narrazione. La trama della fiaba è perfetta per il videogame, realizzato dalla Mr. Micro. Offre su un piatto smaltato di blu il tema della principessa da salvare, caro ai videogiochi (“Super Mario”, “Donkey Kong”, “Double Dragon”). Il gioco ha un rimando esplicito al tema ceramico: si svolge all’interno di due bande bianche con decori. Insomma, più che un film interattivo, un piatto interattivo. La critica europea lo accoglie con favore: è un bell’esempio di quel “videogame come arte” che si inizia ad affermare allora, con sistema di gioco più complesso ed estetica raffinata. E quella raffinatezza la trae da una lunga continuità dell’arte ceramica. Non sarebbe bello, un domani, vedere a fianco della teca col servizio Willow Pattern un cabinato di retrogaming dove i visitatori possano “entrare nel piatto” tramite lo storico videogame?

Riti e rituali: un piatto per la Pasqua ebraica

Alzata vassoio, terraglia tenera. Mondovì manifattura “Vedova Besio e figlio”. Lattes 1979. Vassoio ispirato al rito che si celebra la sera della Pasqua ebraica (Pesach)

di VITER LUNA

La Pésach è una delle ricorrenze più radicate nella cultura ebraica: l’Haggadàh (il “racconto”) narra l’uscita del popolo dall’Egitto e il lungo cammino verso la terra promessa. Quella ebraica è cultura in cui i riti famigliari si uniscono con una visione più antropologica legata alla narrazione di un’intera civiltà, fatta di storie spesso tramandate oralmente, e che hanno, in momenti di vita quotidiana come il pasto, veri e propri emblemi culturali. Nei suoi racconti l’americano Jonathan Safran Foer ha narrato questo legame con i riti, le abitudini e gli oggetti: dal primo successo. Ogni Cosa è Illuminata (diventato anche un film) ad Eccomi (2016), si offre al lettore un’esperienza culturale e politica, oltreché emotiva e sentimentale, nella tradizione.
Se in un Museo come quello della Ceramica di Mondovì, grazie al lavoro di Marco Levi, vi è una sala dedicata ai piatti della Pasqua, una ragione sta nella necessità di agganciare un vissuto collettivo con un rito come il pasto. Al pane non lievitato e ad una attenzione nel non “inquinarne” la cucina (in Unorthodox si vede una cucina coperta di alluminio) si aggiunge un ordine di portate e preghiere a seconda della giornata della lunga festività (complessivamente dura circa una settimana). Durante la cerimonia principale anche il piatto diventa elemento centrale della narrazione: vi sono appoggiati il kerpas, le erbe amare, una zampa arrostita di capretto, un uovo sodo e la haroset. Il rito comincia con un ricordo in lingua aramaica e dopo la domanda posta dai bambini sul significato di Pesach comincia il racconto dell’uscita dall’Egitto. Proprio Safran Foer insieme a Nathan Englander nel 2012 ha composto una nuova Haggadah di Pesach: lo stesso scrittore, in un testo pubblicato dal New York Times, ha raccontato l’esperienza di nuovo autore americano (oggi quarantacinquenne) di fronte ad un rito che per gli ebrei segna la notte della conquista della libertà e la riaffermazione dell’identità.

Ferrara Castle: sul piatto una location da “film”

Piatto terraglia tenera. Mondovì, manifattura “Giuseppe Besio” Terzo quarto del XIX secolo. Decorazione stampata con motivo castello di Ferrara

di GIOVANNI RIZZI

Un paesaggio portuale d’epoca, con una fortezza sullo sfondo a sorvegliare alcune imbarcazioni a vela. Un’ambientazione che rievoca corti sfarzose e viaggi avventurosi. Sui piatti della ceramica monregalese possiamo trovare raffigurato uno dei monumenti del patrimonio italiano in grado di trasportarci alla perfezione nelle atmosfere di quei mondi antichi: il Castello dei Duchi d’Este di Ferrara. L’edificio è un catalizzatore di arti e cultura, e inoltre una “quinta” naturale dove ambientare romanzi storici e narrazioni di ogni epoca. Il cinema non poteva ignorare questo potenziale e gli occhi dei maestri italiani della regia si posarono sull’affascinante costruzione, così come nell’Ottocento accadde alla manifattura Wedgwood: interessata col servizio “Ferrara Castle”, tratto dalle stampe incise di William Brookers, a rappresentare sulle ceramiche un porto italiano. Un porto fluviale più precisamente, dove le imbarcazioni sfilano in primo piano in un canale di collegamento al Po, sotto la maestosa presenza della fortezza. Quando le fabbriche monregalesi riprodussero il motivo, il castello era decisamente più inaccessibile di oggi, la gente poteva ammirarlo anche sulle ceramiche, ignorando che di lì a pochi decenni l’invenzione di due fratelli francesi li avrebbe potuti accompagnare in quel luogo in una maniera del tutto inaspettata. Sono una quarantina le pellicole, tra documentari ed opere di finzione, ad immortalare il castello. Contrariamente alle atmosfere viste sul piatto, il cinema lo utilizza prevalentemente in opere spiccatamente drammatiche, come sfondo o parte integrante della vicenda. Ne “La lunga notte del ‘43” è teatro degli scontri tra partigiani e fascisti. In questo caso curiosamente la presenza del castello è un falso, in quanto l’edificio fu ricostruito in maniera tanto fedele da ingannare gli stessi ferraresi. In “Ossessione”, Luchino Visconti usa invece quello vero in tutto il suo splendore, introducendolo in molte scene di spicco di quello che è considerato uno dei capolavori del cinema italiano.

Il kintsugi metafora del racconto di un paese

“Map of Italy”, Bouke De Vries 2017. Frammenti di terracotta provenienti dalla zona di Mondovì. Opera specifica del sito dedicato al Museo di Mondovì

di PAOLO ROGGERO

Aggiustare, con pazienza, un oggetto irrimediabilmente compromesso. Un’azione che, per com’è impostata tutta la società occidentale del dopoguerra, non fa più parte della quotidianità ordinaria. Anche per questo ha colpito così tanto la tecnica giapponese del “kintsugi”, in questi ultimi anni caratterizzati da una riscoperta complessiva della cultura nipponica. Il “kintsugi” consiste nel ricomporre i cocci di un oggetto di materiale fragile, che sia vetro, ceramica o altro. L’obiettivo è riportarlo all’integrità, incollandone i margini e riempiendo eventuali vuoti con apposite lacche e collanti. Lungi dal nascondere, questo restauro rende le linee di frattura ancora più evidenti, grazie al colore dorato del collante, e se possibile rende l’oggetto ancora più pregiato. La tecnica giapponese infatti prevede che il collante che si utilizza venga arricchito con materiale prezioso. Il significato di tutto ciò è formidabile: quello che era un oggetto privo di qualsiasi valore e utilità diventa ancora più pregevole, sia artisticamente che materialmente. Per molti, una metafora perfetta del concetto di resilienza. Quando, nel 2017, l’artista Bouke De Vries varcò la soglia del Museo della Ceramica monregalese e scoprì che, oltre a tanti reperti di valore, i magazzini del Museo erano pieni di cocci e frammenti di antiche produzioni che non erano sopravvissute al tempo, volle lavorare proprio su questo. “Maps” è il risultato di questo lavoro, realizzato proprio con la tecnica giapponese di cui abbiamo parlato. Grazie a centinaia di frammenti, assemblati e incollati con certosina pazienza, De Vries ha realizzato una grande mappa dell’Italia. De Vries non è nuovo a questo tipo di lavori: aveva già realizzato l’Olanda, la Corea del sud e la Cina (quest’ultima era stata esposta a Mondovì, proprio davanti alla nuova opera dedicata al nostro Paese). Appare evidente come l’opera, oltre a riutilizzare e dare nuova vita a materiali altrimenti destituiti di ogni valore, racconti qualcosa del nostro Paese, delle sue contraddizioni e delle sue frammentazioni.


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