La rotta del caporalato: dalla stazione di Alba alle vigne di Farigliano, Neive, Castiglione e Monforte
«Nel momento in cui la giornata lavorativa dura dieci o dodici ore, è evidente che siamo fuori dal perimetro della legalità»: così il procuratore capo di Asti, Biagio Mazzeo, commenta la posizione degli imprenditori del vino, che si servono della manodopera sfruttata nelle Langhe, portato alla luce dall'operazione Iron Rod della questura di Cuneo. Al momento gli unici indagati sono i tre presunti caporali, migranti con precedenti penali, destinatari di misure cautelari nell'ambito di tre diversi filoni d'inchiesta, non collegati.
Comune ai tre, oltre al modus operandi, era il punto di ritrovo. I braccianti dovevano farsi trovare nelle prime ore del mattino davanti alla stazione di Alba. Da lì venivano distribuiti nelle campagne tra Farigliano, Neive, Castiglione Tinella, Monforte d’Alba: «Sono interessate tutte le aree della vendemmia, dai moscati ai nebbioli» fa sapere il dirigente della Mobile Giancarlo Floris. Aziende che producono vini pregiati, dunque, e che almeno in qualche misura non potevano non sapere.
Emergono tuttavia possibili ulteriori responsabilità: «La nostra prospettiva - spiega il questore di Cuneo, Carmine Rocco Grassi - si deve spostare ora su chi, non preoccupandosi delle condizioni di assunzione, si affida a cooperative o a soggetti come questi, pensando di potersi lavare le mani», con chiaro riferimento agli imprenditori agricoli.
Sono le Langhe la nuova frontiera della lotta allo sfruttamento agricolo nella Granda: «Non è pensabile che il problema riguardi solo Saluzzo e questa indagine, come altre nel passato, lo dimostrano» ha detto in riferimento alle proteste degli stagionali della frutta nel Saluzzese, che per anni sono state oggetto di cronaca.
L’hanno chiamata operazione “Iron Rod”, barra di ferro, prendendo spunto dall’arnese con cui in un video si vede uno degli indagati pestare un bracciante: il malcapitato aveva avuto il “torto” di chiedere condizioni di lavoro più dignitose, rispetto ai turni da dieci o quindici ore giornaliere, con una paga da fame, a cui erano costretti lui e i suoi colleghi.
Sullo sfondo del filmato, girato con un telefonino, si vedono gli splendidi filari delle Langhe di Neive. Paesaggi da cartolina, gli stessi in cui i turisti approdano alla domenica per “instagrammarsi”, tenendo in mano un bicchiere di Barolo. Tre persone, un marocchino, un macedone e un albanese, sono indagate per il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (il cosiddetto caporalato), oltre che per violazione della normativa sull’immigrazione. Per i primi due, all’esito delle indagini condotte per un anno dalla Squadra Mobile della Questura di Cuneo, sono scattati gli arresti domiciliari. Per il terzo, la cui posizione è meno grave, c’è il divieto temporaneo di esercitare attività professionali: tutti e tre gli indagati sono immigrati regolari, con qualche precedente penale, domiciliati a Mango, Novello e Alba.
In almeno un caso, quello del macedone, più che di un “caporale” in senso stretto si può parlare di un “padroncino”: «Era già a un livello superiore, gestiva anche l’accoglienza», spiega il questore Carmine Rocco Grassi. In un caseggiato di sua proprietà a Mango, dove l’uomo vive insieme alla compagna, i poliziotti hanno trovato stipati 19 braccianti: tutti immigrati, quasi tutti extracomunitari e irregolari. Vivevano in condizioni igieniche indecorose, ma pagavano un affitto al loro “padrone di casa”. Soldi decurtati da una paga già misera: tre o quattro euro all’ora, in totale 500 o 600 euro al mese. Quando gli agenti hanno perquisito la cascina hanno trovato sedicimila euro in contanti, nascosti nei cuscini e in una custodia per occhiali, piazzata dietro a un mobile: «Tutti hanno soldi in casa» si è giustificato il proprietario. È emerso anche che il macedone teneva d’occhio i suoi “inquilini” con un efficientissimo sistema di videosorveglianza, collegato a una app installata sul telefonino: una vigilanza da Grande Fratello, sui campi come in stanza.
L’aspetto peculiare della vicenda è che si tratta di tre indagini separate, nate da segnalazioni raccolte tramite i sindacati e le associazioni di volontariato che assistono i braccianti stranieri. Un segnale rilevante, secondo la Questura, perché dimostra la pervasività del “sistema” nelle Langhe dei grandi vini: dove non c’è un’organizzazione criminale da sgominare, ma tante sacche di sopraffazione. A carico di uno degli indagati, il marocchino, pesano come si diceva anche vere e proprie aggressioni fisiche, filmate in diretta.
Sono una cinquantina i lavoratori che gli inquirenti sono riusciti a identificare: vengono perlopiù dall’Africa, in particolare Gambia, Guinea, Nigeria, Marocco, Egitto, Senegal, Mali, Burkina Faso, Costa d’Avorio. Ma anche da Albania e Romania. Qualcuno dei braccianti, dopo aver collaborato con chi svolgeva le indagini, ha ottenuto il permesso di soggiorno per ragioni di giustizia: «Uno strumento per noi molto importante» dice il procuratore Mazzeo.