La scuola per gli studenti con Disturbi Specifici d’Apprendimento
Gli alunni con DSA (Disturbi Specifici di Apprendimento) sono entrati ufficialmente nella legislazione scolastica italiana nel 2010 con la legge n. 170, ampliata poi con le “Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con disturbi specifici di apprendimento” uscita l’anno successivo. Per alunni con DSA si intendono quegli alunni che presentano almeno una di queste quattro diagnosi: dislessia (difficoltà nella lettura in termini di correttezza e velocità), disortografia (difficoltà nell’applicazione delle leggi ortografiche nella scrittura), disgrafia (difficoltà nella scrittura dei grafemi e nell’allineamento delle lettere) e discalculia (difficoltà nell’apprendimento della matematica).
Per supportare, quindi, tali alunni la legge 170 mette in atto una serie di strumenti per agevolare il diritto allo studio di chi ha una diagnosi di DSA. Tra questi si annovera, in primis, il PDP, sigla che sta per Piano Didattico Personalizzato, e che viene redatto dal Consiglio di classe e racchiude in sè tutte le informazioni e indicazioni necessarie al docente per aiutare l’alunno in questione. In esso, infatti, si trovano gli strumenti compensativi (tablet, programmi di video-scrittura, calcolatrice, mappe concettuali, etc…) e le misure dispensative (interrogazioni orali programmate, tempo supplementare, etc…) da attuare in ogni materia. Inoltre sono presenti anche le indicazioni per valutare il percorso dello studente. La Regione Piemonte ha portato ad un altro livello il concetto PDP grazie all’introduzione di un modello regionale che facilita la comunicazione tra Istituti, soprattutto nel caso di trasferimento di un alunno.
LA STUDENTESSA - «Non sempre si capiscono le difficoltà che si hanno»
Per capire, però, se nel Monregalese queste norme vengano seguite abbiamo chiesto a Maria Chiara, ex liceale approdata ormai all’Università di Torino, di raccontarci il suo percorso scolastico con certificazione DSA con una diagnosi di disgrafia.
«Il rapporto con la “Certificazione” è stato sicuramente un rapporto controverso, se così si può definire. Io alle Elementari capivo di far fatica nella velocità di scrittura e lettura, ma non pensavo, né sapevo, esistesse questa cosa. E infatti non mi sono fatta troppi problemi ad averla. Poi, soprattutto per paura del giudizio degli altri, di essere etichettata dai compagni come quella che “viene aiutata” e dai professori come quella che “ne approfitta”, ho rinunciato alla certificazione e agli aiuti che ne derivavano. Questo perché, alla fine, chi non ha la certificazione non capisce sempre cosa vuol dire avercela e le difficoltà che si hanno».
Approdata però al Liceo, la situazione per Maria Chiara cambia nuovamente: «Alle Superiori, invece, ho capito che la certificazione non serviva agli altri per etichettare me, ma serviva a me per dare il meglio che potevo».
Nell’ambiente liceale, Maria Chiara si trova inoltre davanti molti professori informati della situazione, oltre che della normativa e di come applicarla: «La maggior parte delle volte il PDP è stato rispettato. Solo all’inizio l’argomento era ancora poco conosciuto, per cui c’era ancora della confusione e nemmeno i professori sapevano bene come comportarsi. Con gli anni la situazione è migliorata. Non nego che delle volte sia successo che mia madre sia dovuta andare da un insegnante e dirgli che il modo che usava per valutare le competenze non era molto corretto. Per esempio c’era stata una verifica di vocaboli in cui si doveva fare la traduzione istantanea sotto dettatura dall’italiano all’inglese. Per me non era fattibile, poiché non mi era dato il tempo materiale di scrivere la parola sul foglio, anche quando conoscevo la risposta. Proprio per questo ho diritto, principalmente, al tempo aggiuntivo, oltre alla valutazione del contenuto e non della forma».
A parte queste piccole macchie nere, il percorso di Maria Chiara, anche e soprattutto grazie agli insegnanti, è stato lineare e al pari dei suoi compagni: «Fortunatamente ho trovato dei professori che hanno compreso la situazione e non sono quasi mai stati indiscreti. Qualcuno non capiva cosa volesse dire e magari etichettava gli studenti DSA come “quelli speciali”, e questo ovviamente non faceva piacere. Ma, a parte questi episodi sporadici, mi sono trovata bene, facendo fatica come tutti gli altri. Inoltre io sono stata una persona che ha sempre cercato di non farsi etichettare come persona con DSA, come anche l’esperienza delle Medie dimostra». E quest’attitudine a non essere etichettata la dimostra anche il corollario di attività extrascolastiche interne alla Scuola svolte da Maria Chiara durante gli anni di Liceo. «Io facevo tutti questi corsi perché ero curiosa, mi ispiravano e volevo sapere. Anche se sapevo che questo comportava minor tempo per lo studio, che con una certificazione da disgrafica è una sfida in più che ti aiuta ad organizzare meglio il tempo. Inoltre non volevo neanche che avere questa certificazione significasse chiudere altre porte. Per esempio, il lavoro sul giornalino scolastico voleva dire per me informarsi, cercare informazioni, etc… e avendo difficoltà a leggere voleva dire investire veramente molto tempo in quest’attività. Però perché non farlo solo perché c’è la certificazione? Se è ciò che ti piace, ti inspira, ti incuriosisce bisogna farlo. E allora lo facevo anche come sfida personale, per mettermi in gioco».
L’ESPERIENZA DI DUE GENITORI - Il rapporto con i professori, non sempre facile
In questo caso ci focalizziamo sull’esperienza alla Secondaria di primo grado di un altro studente con certificazione DSA, datagli dopo una diagnosi di dislessia, disortografia, disgrafia e discalculia. L’esperienza ce la raccontano i suoi genitori che fin dall’inizio sottolineano come, al contrario di ciò che è stato descritto da Maria Chiara, la loro non sia stata facile, partendo dal rapporto con i professori: «Parto dal raccontare un fatto successo alla fine della terza Media – ci racconta la madre – dove durante un colloquio, alla mia richiesta di inserire nel PDP, in vista dell’esame, il riassunto vocale per compensare la difficoltà nella lingua straniera, l’insegnante mi ha chiesto la certificazione e in quale passaggio di questa era espressa questa necessità. Da qui la prima domanda che mi son posta è stata: “Se io la certificazione, come da legge, l’ho consegnata all’inizio dell’estate del 2021, com’è possibile che a maggio 2024 mi si chieda la copia della certificazione?”. Certificazione sulla quale abbiamo lavorato e discusso». Non è però l’unico inconveniente che la famiglia ha dovuto affrontare. Tra i vari aspetti che riguardano la questione DSA, questione delicata e per nulla facile, sono infatti mancati due dei più importanti, sottolineati anche nella legge 170 del 2010 e nelle Linee Guida del 2011: «È sicuramente mancato, in questi tre anni, proprio il confronto tra Scuola e famiglia. Questo perché ad ogni episodio, alla richiesta di confronto, si innalzava un muro che da un lato vedeva il docente mentre dall’altra c’era la mamma rompiscatole. E, a mio avviso, è mancata anche la collaborazione interna tra insegnanti». Quest’ultimo aspetto ha così creato una grossa differenza nei rapporti con i vari insegnanti: «Se da un lato l’insegnante di matematica è stata particolarmente brava a trovare un metodo, perché non l’ha potuto condividere con altri insegnanti. E questo lo dico perché c’è stato un netto divario tra le varie materie. Non nego che la matematica possa piacere di più dell’italiano, o viceversa. Ma le metodologie, se scambiate e dialogate tra insegnanti, potrebbero essere un valido aiuto per il singolo alunno e per tutta la classe».
«Non è tanto – aggiunge il padre del ragazzo – avere il bel voto, ma è anche legato ad una questione psicologica di stress, stanchezza, autostima… Perché se pensi che tu a fare un compito ci metti un’ora, magari un ragazzo con una difficoltà ce ne mette due. E questo inficia l’autostima, perché finisce per far dire “non ce la faccio”, “non riesco”. E questo, poi, si porta anche fuori dalla Scuola. Così, anche nelle faccende più semplici e quotidiane come tagliare l’erba, può iniziare a dire le stesse cose».
La famiglia è arrivata a vedere il PDP lasciato in bianco da alcune materie: «Ci hanno inviato il documento ad ottobre – spiega ancora il padre – per farcelo firmare. Lo abbiamo guardato, letto, e abbiamo visto che non tutti gli insegnanti lo avevano compilato e allora ci siamo rifiutati di firmarlo, perché nel momento in cui lo firmi vuol dire che accetti. Allora chi non lo aveva compilato lo ha fatto, in modo molto superficiale. In particolare l’insegnante di musica, perché secondo lui lo studente non aveva bisogni. Per cui questo era solo un modo di giustificare la poca voglia e, per rispondere alla domanda del perché non lo avesse compilato, ha risposto che alle Superiori non ci saranno poi sempre papà e mamma a sorreggere il ragazzo. Questo denota una certa ignoranza in materia di DSA perché il PDP lui (lo studente) se lo porterà dietro fino all’Università, così come la certificazione. E alla fine è sembrato che a mettere quelle due o tre crocette lui ci avesse fatto quasi un piacere, come per accontentarci. A livello poi pratico non è cambiato quasi niente nella materia in questione».
Altro problema, riscontrato sempre dai genitori durante i vari colloqui con i docenti, riguardava le varie motivazioni per cui l’insegnante in questione giustificava il non seguire ciò che era predisposto dal PDP: «L’insegnante di musica, come già detto, riteneva che fossero tutte bugie per coprire una mancanza di voglia, o altro. Invece l’insegnante di italiano ci ha spiegato che durante tutta la sua vita da studentessa ha sempre sottolineato tutto per cui anche lo studente doveva fare così. Risultato: le mappe concettuali che poi venivano create dallo studente, e che poteva tenere durante le verifiche e interrogazioni, non potevano essere usate perché troppo ricche. Questo perché nel costruirle lui riportava tutto ciò che era sottolineato, per cui diventava un riassunto del libro e non una mappa. E infine anche una docente che ci ha detto “Io insegno dal 2003, vorrai mica venirmi ad insegnare come fare il mio mestiere”. Il fatto di arrivare ad essere un’insegnante, a parer nostro però, non deve essere un punto di arrivo ma un punto di partenza. Dopo di che la Scuola va avanti, ci sono nuovi metodi, nuove conoscenze. E a quel punto sta a te insegnante metterti in gioco».
Se mentre dal lato dei docenti c’è stato un rapporto connotato da alti e bassi, tra professori che sono riusciti a trovare un metodo valido, chiedendo anche consiglio ai genitori, e professori che invece hanno proseguito sulla loro strada, dall’altro lato c’è stato un gran sostegno da parte della preside: «Un plauso va fatto alla dirigente di quest’ultimo anno perché nei vari colloqui che abbiamo avuto era chiaro sapesse perfettamente di ciò che stavamo parlando. Anzi, alcuni suggerimenti ce li ha dati lei senza fare troppa burocrazia. Peccato che essendo reggente forse non è riuscita ad essere sempre presente a scuola, per cui molte cose che ci eravamo detti non si sono concretizzate. E questo, il fatto che fosse “solo” reggente, è stato il problema più grosso»