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giovedì 12 Dicembre 2024     Accedi

Giacomo Puccini 100: l’alba è venuta

A 100 anni dalla morte, un ritratto del maestro lucchese. Un centenario celebrato dalle fondazioni liriche e dalle istituzioni musicali in tutto il mondo. Questo è stato davvero l'anno di Giacomo Puccini

Paolo Roggero

Oggi, che abbiamo le orecchie viziate dal roboante Novecento, con le sue dissonanze, il suo serialismo, la sua attenzione al timbro prima che alla grammatica musicale, è difficile rendersi conto di chi sia stato e cosa abbia rappresentato artisticamente Giacomo Puccini. Un ascoltatore contemporaneo, che passa disinvoltamente da Antonio Vivaldi ad Alban Berg, o da Verdi a Wagner può avere difficoltà a rendersi conto della novità che la musica del compositore lucchese ha rappresentato per il panorama dei suoi contemporanei. Il modo più semplice per ritrovare la grandezza di Puccini sta nell’ascoltarne un frammento di opera in riduzione pianistica. Ritrovarne la musica nuda, sgombrando il campo dalla pur magnifica orchestrazione, dalla ricchezza di colori degli strumenti, dalla potenza esibizionistica delle voci soliste, vere protagoniste del teatro musicale. Nella scarna purezza del pianoforte, si ha l’impressione che la musica emani mille barbagli, come un diamante colpito da un fascio di luce. Tale è la ricchezza armonica del Maestro: da qui bisogna partire per cogliere appieno la sua lezione e capire l’importanza di un artista che traghettò la tradizione dell’opera italiana nel Novecento. Puccini unì la lezione di Wagner, dall’uso dei leitmotiv al sinfonismo orchestrale, al bel canto e alla melodia. L’opera ai tempi di Rossini era un concerto di arie e cabalette, duetti, terzetti, quartetti, concertati, alternati da recitativi. Tutti numeri chiusi, però, legati insieme da una trama, da una storia. E protagoniste erano sempre le voci, un po’ come nel teatro di prosa, a cui l’orchestra faceva da contraltare, da sottofondo, spesso marcando il ritmo con il classico Zum pa pà, o altre figurazioni, talvolta quasi bandistiche. Con Verdi l’opera si fa drammaturgia serrata, sintetica e si va verso un’unità della trama prima irraggiungibile. Si racconta la storia tenendo lo spettatore sulla corda, con colpi di scena e picchi di intensità in fine d’atto. Con Wagner l’orchestra prende in mano le redini del gioco e costruisce il paesaggio sonoro su cui si esprimono le voci, che quindi diventano parte di questa scrittura, non ne sono più la componente trainante. Questo concetto viene fatto proprio da Puccini, che dimostra che le ultime tendenze della modernità, del suo tempo, sono tutte conciliabili con la tradizione nobile e italianissima del melodramma lirico. Giacomo Puccini sa di poter dare il suo meglio sul sentimento, e cerca partiture con grandi picchi di dramma. Per questo quasi tutte le sue opere finiscono tragicamente. Con alcune notevoli eccezioni però: Il buffo Gianni Schicchi del Trittico, La Fanciulla del West e la Turandot, il cui rovello drammaturgico non riuscì a risolvere. Qui sta il mistero di Giacomo Puccini: il segreto di un uomo in grado di inaugurare la musica del Novecento, con il primo atto di Turandot, o incantare un compositore come Anton Webern, che scrisse ad Arnold Schonberg (due compositori all’epoca d’avanguardia), riferendosi a “Fanciulla”, «Orchestrazione meravigliosa: non c’è una battuta che non sia sorprendente» e allo stesso tempo commuovere le signorine di buona famiglia e scrivere arie talmente popolari che ancora oggi, a distanza di cento anni, le possiamo anche riarrangiare in chiave pop e astrarle da ogni contesto, e funzionano benissimo ugualmente.

Da "Le Villi" a "Turandot": i successi di una carriera dedicata al teatro

La storia teatrale di Puccini comincia con “Le Villi”: come molti compositori dell’epoca, prima di vedersi affidare una grande produzione operistica si veniva chiamati a mettersi alla prova con una breve rappresentazione di un atto (un po’ come oggi un regista dà buona prova di sè con i cortometraggi). Curiosa favola moralistica che mette in scena i sensi di colpa di un fidanzato fedifrago, rappresentandoli un po’ come le Erinni della cultura classica. La buona accoglienza dell’opera spiana la strada alla prima opera: un debutto sfortunato. L’”Edgar”, che aprì le rappresentazioni sulla piazza milanese: andò bene ma non benissimo, tant’è che fu poi rielaborato notevolmente nel tentativo di correggerlo.

Di Adolfo Hohenstein

Rimase uno dei suoi titoli più tormentati. Andò meglio con la successiva “Manon Lescaut”, in cui il compositore cominciò la fortunata collaborazione con uno dei suoi librettisti più significativi, Luigi Illica. La Manon, tratta dal fortunato romanzo di Prevost, aveva già goduto di altre trasposizioni operistiche. Vi si ritrovano le caratteristiche che poi saranno caratterizzanti delle opere più note di Puccini. Una figura femminile al centro dell’intreccio, uno sfondo storico e un finale tragico. “Manon” fu un successo clamoroso. Seguì un trittico di capolavori: “La Bohème”, “Tosca” e “Madama Butterfly”, ancora oggi tra i più eseguiti ed amati titoli del mondo. Segue la “Fanciulla del west”, curioso antesignano dell’immaginario western. Il suo tratto innovativo fu anche la sua maledizione, visto l’abuso successivo, fatto soprattutto dal cinema dei clichè del genere. Seguono il “Trittico”, tour de force che propone tre opere da un atto, molto diverse tra di loro, la sottovalutatissima “Rondine” e la conclusiva “Turandot”. Nata come un’operetta, la “Rondine” è un’opera originale e coraggiosa, tant’è che non godette di grande fortuna. La protagonista è una donna di mondo, un po’ come lo era la Violetta Valery de “La Traviata”. Nella mondanità parigina, cinica e materialista, sogna un amore sincero e lo trova in un giovane studente squattrinato, con cui inizia un idillio. Vivendo questa storia d’amore, tuttavia, dopo la passione iniziale comincia a sentire la mancanza degli agi e della vivacità della sua precedente vita e quando lui le prospetta un matrimonio e la maternità capisce di non essere la donna giusta per lui, e le strade dei due si separano, tornando ciascuno alla propria vita. È evidente il crudo disincanto di questa storia, raccontata da una partitura che non ha paura di sporcarsi le mani contaminando il proprio sinfonismo con la musica popolare d’epoca. Puccini non amò troppo “La Rondine”, insoddisfatto soprattutto del terzo atto. L’ultima grande avventura musicale fu Turandot, di cui non riuscì a scrivere il finale.

Turandot: Il mistero della grande incompiuta di Puccini


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