Turandot: Il mistero della grande incompiuta di Puccini
La “Turandot” di Giacomo Puccini è tradizionalmente il titolo con cui finisce la grande stagione del melodramma lirico italiano. Opere ne sono state scritte anche negli anni successivi, certamente, anche di grande rilievo e si continua a scriverne. In qualche modo però, con questo titolo di Puccini si chiude il periodo in cui il teatro musicale ha avuto un maggior peso nell’immaginario popolare, ruolo che negli anni successivi sarebbe stato assunto dal cinema. In qualche modo, è significativo che l’ultimo grande capolavoro dell’opera italiana sia rimasto incompiuto. La morte infatti impedì a Puccini di scriverne il finale. Il compositore arrivò a completare la scena della fine di Liù, dopodiché lasciò solo abbozzi dell’ultima parte. Questo episodio è notissimo, meno noto però è il fatto che la morte non sorprese Puccini in corso d’opera, impedendogli di completare un progetto che stava procedendo spedito. La “Turandot” era sulla sua scrivania da terminare ormai da mesi quando la malattia lo colpì portandolo alla morte. La composizione si era arenata su un rovello che il compositore non riusciva a risolvere.
“Turandot” è l’unico lavoro del corpus pucciniano di ambientazione fantastica: trae spunto da una fiaba settecentesca di Carlo Gozzi. In un’Asia fiabesca, la principessa Turandot sottopone tutti i suoi pretendenti a una serie di indovinelli, per vendicare un’antenata violentata dai tartari. Chi fallisce la prova viene decapitato. L’eroe Calaf, principe tartaro decaduto, il cui padre fu spodestato proprio dai regnanti, si cimenta nella tenzone e la supera. La principessa non conosce il suo nome proprio perché Calaf lo ha celato a tutti per timore di essere riconosciuto e ucciso. Così sottopone Turandot, a sua volta, a una prova: se riuscirà a scoprire il suo nome lui le donerà la sua vita. Uno dei personaggi principali nella trama è Liù, schiava segretamente innamorata del protagonista. Così Turandot, nel furore, la fa torturare, fino a causarne il suicidio. Lei conosce il segreto di Calaf, ma accetta di morire pur di salvarlo dalla vendetta della principessa. La fiaba di Gozzi si conclude con il trionfo finale, inevitabile nel mondo ancestrale e crudele della fiaba. Turandot infine si innamora di Calaf e i due si uniscono in matrimonio. Per Puccini però questa conclusione costituì un problema insormontabile. Vale la pena ricordare che, sostanzialmente, tutte le opere di Puccini sono ambientate in un contesto storico: il compositore cercava trame che consentissero agli spettatori di immedesimarsi ed emozionarsi e a lui di poter scatenare tutta la sua forza evocativa realizzando scene di grande tragicità. Come avrebbe potuto il pubblico, si domandava, festeggiare l’amore tra Calaf e la gelida, sanguinaria, potente Turandot e quando era appena costato crudelmente la vita alla povera, dolce e innamorata Liù? Nel corso della trama era evidente al compositore che il pubblico avrebbe empatizzato con lei, più ancora che con Calaf. Vederla morire sul palco (peraltro in una scena musicalmente perfetta) avrebbe inevitabilmente reso impossibile per gli spettatori accettare un finale positivo. Puccini era solito procedere a rilento, tra mille dubbi e ripensamenti, ma “Turandot” fu un percorso a ostacoli, e non riuscì a trovare una soluzione al problema del finale. La partitura fu poi completata da Franco Alfano, che senza troppi patemi proseguì la composizione basandosi sulle idee di Puccini rimaste su carta e così l’ultima grande opera del maestro di Lucca poté vedere la luce.
Il direttore Toscanini fece allo stesso tempo la cosa migliore e la cosa peggiore che potesse fare: alla “prima” assoluta volle rispettare la partitura del maestro, fermando la rappresentazione dopo la morte di Liù. Nelle repliche successive mutilò il finale di Alfano con numerosi tagli, giudicandolo troppo lungo, con il risultato però di distruggere il lavoro di sfumature con cui il compositore aveva gestito il passaggio dalla tragica morte di Liù al trionfo finale dei due protagonisti. Molto rappresentato è anche il finale di Luciano Berio, meno trionfale, meno spettacolare ma forse drammaturgicamente più coerente. Un finale dimesso, in chiaroscuro, che rende giustizia all’amara vittoria finale di Calaf e al sacrificio di Liù. È a suo modo iconico il fatto che l’ultima grande opera del teatro musicale italiano non abbia un finale, ma ne abbia tanti, riletti alla luce dei tempi e delle sensibilità che cambiano. Come la metafora di un’arte che, per sopravvivere ancora oggi, deve saper affrontare la sfida di rinnovarsi e raccontare il proprio tempo anche nella riproposizione di titoli storici.
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