L’addio a don Meo Bergese. Una vita spesa per gli altri, annunciando il vangelo e servendo gli ultimi
Ultimo saluto nella fede, nella riconoscenza e nell’amicizia per don Meo Bergese (scomparso lunedì mattina alla Casa del clero di Fontanelle di Boves, all’età di 83 anni), nella parrocchiale di Vigna Val Pesio, nella cui comunità lo stesso sacerdote era cresciuto dagli anni dell’infanzia con la mamma Giovanna ed il fratello donato: ha presieduto l’Eucaristia – concelebrata da oltre quaranta presbiteri – mons. Egidio Miragoli che ha ripercorso la lunga e preziosa testimonianza dello stesso don Meo in vari campi di impegno pastorale, risalendo anche al suo percorso di vita, quale orfano di guerra, in anni difficili sotto vari aspetti, contando sulla dedizione ammirevole della mamma e sulla condivisione di tanti. Prima dell’addio finale, al termine della celebrazione - cui era presente anche il sindaco di Chiusa Pesio -, il fratello Donato ha avuto parole commoventi e riconoscenti per tutti.
Martedì sera sempre ai Vigna, la Veglia di preghiera per don Meo, predisposta, con accuratezza e ricchezza di spunti dalla Parola di Dio e nella fede nel Risorto, dagli amici de “La Tenda dell’incontro Giovanni Giorgis”, con testimoniane importanti da parte di don Gianni Martino, di Andrea Lebra e di Margherita Bonanate. “Il 3 maggio 2019 il caro don Meo venne a trovarmi. Fu un incontro diverso dagli altri, e subito lo percepii chiaramente, a partire dalla commozione che più volte lo assalì – ha detto il vescovo nella sua omelia –. Lo ascoltavo con l’attenzione per memorizzare al meglio le sue parole. Dopo che si fu congedato, presi carta e penna e annotai i contenuti di quel colloquio, con la percezione che don Meo avesse voluto consegnarmi la chiave di lettura per interpretare la sua vita, e non solo: che quello sarebbe stato l’ultimo vero incontro tra noi. Ed effettivamente fu così: seguirono infatti il ritorno in Brasile, il Covid, il ricovero, l’intervento chirurgico in bocca, il lento declino, fino alla morte, all’indomani dell’Immacolata. Gli ultimi incontri ormai sono stati solo di poche parole, neppure troppo consapevoli, e sguardi accompagnati dall’immancabile sorriso. In questo momento di fede e di preghiera in cui ci congediamo da don Meo, mi piace renderlo qui presente rileggendo le note redatte quel giorno lontano. Senza abbellirle, nella loro scarna rapidità: quanto di più vicino alle sue parole, seppure filtrate dalla mia immediata memoria”.
L’infanzia: tempo di guerra e di eroismi
“Scrissi così: «Nato nel 1941, al Murazzo di Fossano. Vivevamo in cascina. Papà andò in guerra. Tornò nel 1942 e mia madre concepì mio fratello Donato. Ma dopo l’8 settembre ‘43 il papà fu deportato in Germania. Fino al giugno del ’44 scriveva regolarmente a casa. La mamma conservava gelosamente quelle lettere. Poi nel 1944, un giorno i tedeschi circondarono la nostra abitazione perché in quella zona si ospitavano e aiutavano i partigiani. Volevano ucciderci…Cercavano il papà dei due bambini che erano in cortile, e minacciavano di ucciderci tutti. La mamma cercava di spiegarsi in tutti i modi… Poi in un ultimo disperato tentativo cercò le lettere del marito per dimostrare che non era scappato o nascosto, ma era prigioniero in Germania. Il comandante guardò quelle lettere, si soffermò su di esse, si commosse…e ordinò ai suoi di ritirarsi e di lasciare perdere». (Apro una parentesi di commento, per porre in evidenza la virtù della speranza di un uomo e di una donna che concepiscono un secondo figlio in piena guerra, e la bellezza dell’amore sponsale di lui che scrive dalla prigionia e di lei che conserva le sue lettere come una reliquia e le esibisce a chi vuole ucciderla con i figli. L’amore che ha costruito la famiglia, la salva, portando alla commozione il comandante tedesco, costretto a guardare al di là del momento e della divisa, e a considerare l’umanità di quel piccolo nucleo famigliare così diviso e insieme così unito. Voglio credere che a suscitare la commozione del militare, avrà contribuito soprattutto il tono e il contenuto di quelle lettere!)”.
L’arrivo e l’ospitalità ricevuta a Vigna di Pesio
“Riprendo ora a leggere ciò che don Meo mi disse non senza che spesso la voce gli si rompesse. «“La mamma con noi due bambini si trasferisce a Vigna di Pesio. Era il 1947. Io avevo sei anni. Non sapevamo dove andare ad abitare”. Incontrano una certa “Rina della macchina”, detta così perché faceva la sarta e aveva …la macchina per cucire. La donna vedendoci così malmessi e smarriti chiede chi siamo e dove stiamo andando. La mamma risponde: “Cerco una casa vicina alla chiesa e vicina alla scuola”. La donna presa da pietà chiede se vogliamo andare ad abitare nella sua casa… Vi siamo rimasti per sempre, in quella casa, quasi un’unica famiglia…». (Qui non posso non sottolineare altre due perle: la solidarietà fra poveri, concreta e generosa, fino all’offerta della casa e alla vita condivisa, e la preoccupazione della mamma di avere vicino non solo la scuola ma anche la chiesa, nella certezza che lo spirito dei suoi figli andasse educato non meno della mente)”.
La Provvidenza … è la mano del Parroco
“Torno al testo del 2019, con un episodio che vede coinvolto il parroco di Vigna di Pesio, don Stefano Botto – ha continuato il vescovo Egidio – «A Vigna di Pesio la mamma “lavora” e guadagna qualcosa tenendo pulita la scuola. Un giorno d’inverno tornando a casa non ha la legna per scaldare la casa. Prende tre pezzi di legna dalla scuola. Ma la cosa gli rimorde, non si sente tranquilla… Andrà a confessarlo a don Stefano che ascolta e minimizza, anzi dice che ha fatto bene a fare così… E aggiunge: “vedrai che la Provvidenza non farà mancare più la legna”. E così avvenne. Certamente era don Stefano che gliela mandava!». Terminano qui, i miei appunti. Ma credo bastino a far comprendere in quale contesto don Meo bambino visse e crebbe: un’infanzia in piena guerra, l’esperienza della povertà ma anche della solidarietà fra povera gente, l’importanza riconosciuta alla chiesa, cioè alla vita di fede, e la carità nascosta del parroco. Credo di non sbagliar nel dire che tutto questo contribuì a plasmare la configurazione interiore di don Meo e a fare di lui un prete e un missionario dedito agli ultimi e capace di coniugare annuncio del Vangelo e attenzione ai poveri. Era stato ordinato sacerdote nel 1964, ma ben presto avvertì la vocazione missionaria. Dopo alcuni anni di ministero a Clavesana, Beinette e a Ceva, nel 1980 partì come “Fidei donum” in Brasile, a Nova Iguaçu, dove per la sua capacità di guida e di organizzazione fu eletto dal clero per essere pro-vicario generale. Ma particolarmente significativo fu il secondo periodo che visse in Sud America”.
“Fidei donum” a Pesqueira
“Nel 1998, infatti, dopo essere stato parroco ai santi Patroni in Roma per 8 anni, don Meo riparte per il Brasile, nella diocesi di Pesqueira - ha proseguito il vescovo -. Si tratta di una terra segnata da disuguaglianza e povertà, è caratterizzata da bassi indici di condizioni di vita, soprattutto nell’area rurale. Qui si impegna con tutte le sue energie per far sorgere diverse realtà come risposte ai gravi e urgenti bisogni della popolazione. Rimarrà per circa 23 anni, portando avanti un lavoro interessante e impegnativo fra i contadini, con i ragazzi e gli adolescenti in condizioni di disagio e soprattutto segnati da disabilità. L’attenzione ai poveri si traduce nella creazione di numerose istituzioni, varie ma simili nell’ispirazione, dal “Centro diocesano di appoggio al piccolo produttore” alla “Associazione delle donne ricamatrici” (volta a sottrarre le donne allo sfruttamento dei detentori delle boutiques nazionali ed estere); dall’ “Azione Sociale Speranza e Vita”, in risposta alle marginalità delle nuove generazioni, a due centri finalizzati all’assistenza specifica al bambino e all’adolescente disabile nella città di Pesqueira e alla promozione dei diritti umani, specie per i gruppi vulnerabili, donne, bambini, adolescenti, indigeni”.
Un impegno sociale illuminato dal Vangelo
“Con tutte queste opere di carattere sociale, don Meo era ben consapevole del rischio che qualcuno vedesse annacquata la sua identità di sacerdote e di missionario. Lucidissima e da meditare la su risposta indiretta, affidata a uno scritto: «A volte, dopo la presentazione del mio lavoro di annuncio evangelico, giunge, anche in forma rispettosa, l’osservazione: ma questo è un impegno meramente sociale, non adatto per un prete. Perché il prete dovrebbe “predicare il Vangelo, celebrare messe, confessare…”. Vero, ma solo in parte. Posso garantire che in tutto questo lavoro sociale la presenza di Dio e della Scrittura è fondamentale, costante e insostituibile. Corsi, incontri, raduni, seminari tecnici… tutto è illuminato dalla Parola di Dio, da una fede profonda, tanto che al termine sembra di aver vissuto un corso di esercizi spirituali. Personalmente molte volte sono uscito da questi incontri fortificato e confermato nella mia vocazione. Siamo noi occidentali che abbiamo relegato la fede in sacrestia e tolto Dio dalla vita vera di ogni giorno, dal lavoro e dalla fatica per guadagnare il pane quotidiano. Non si tratta solo di soldi e di economia. Si tratta di cuore e di fede…» (Don Meo Bergese, in ‘Da Mondovì al mondo…dal mondo a Mondovì’, p. 81)”.
Saremo giudicati sull’amore
“Caro don Meo, conserveremo queste tue parole come una sorta di lascito spirituale. Abbiamo ascoltato il Vangelo di Matteo (Mt 25, 31-46) con la forte sottolineatura su dove si può trovare il Signore, su dove si cela la sua gloria: nel fratello e nella sorella in difficoltà, in chi ha fame, in chi ha sete, in chi è nudo, in chi è straniero. Tu ci ripeti che, se non lo riconosciamo lì, se non ci inginocchiamo lì, allora non riconosciamo la presenza di Dio più concreta, quella cui Dio sembra tenere di più, quella su cui saremo giudicati. Mi piace pensare che, proprio sulla scorta di quanto Gesù ci ha detto nel passo di Matteo, avrà avuto salvezza quel comandante tedesco che usò compassione e clemenza a te, a tuo fratello e a tua madre; e che l’abbia anche tu, don Meo: lui per un solo gesto, tu per tutta una vita e tanti giorni e tante notti spese nell’aiuto agli ultimi, nel nome di Gesù, vivendo la sua Parola. Cercheremo di non dimenticarti per avere un esempio efficace di speranza, di fede e di carità sempre davanti agli occhi”, la conclusione del vescovo
RICORDI
Nel ricordo di don Meo, il vescovo Biasin: “Vedeva nei deboli e negli esclusi sempre il positivo e le capacità nascoste”
Il vescovo emerito della diocesi di Pesqueira, mons. Francesco Biasin, ha inviato a nome suo e di altri vescovi del Brasile, il seguente messaggio.
***
Sono Francesco Biasin per 8 anni vescovo di Pesqueira PE Brasile. Desidero manifestare la mia sentita partecipazione al dolore del distacco alla famiglia, in particolare a Donato e Rose per la perdita della presenza fisica di Meo. Mi unisco pure alla Chiesa e al vescovo di Mondovì con il suo presbiterio: uno di voi ha raggiunto la méta. La fede e l’amore ci dicono che c’è Vita oltre la morte! In Gesù Risorto e Vivo ci ritroviamo sempre!!! Conosco Don Meo da tanti anni: come presbiteri abbiamo condiviso insieme tratti importanti del nostro cammino di fede e di ministero e sempre mi ha colpito in lui la sensibilità verso gli ultimi e gli esclusi, nella difesa strenua della loro dignità, facendo sorgere opere di promozione umana che hanno coinvolto centinaia di persone del posto. Alle volte può aver stupito o addirittura “scandalizzato” in lui qualche atteggiamento di perplessità o di critica a persone di Chiesa o ad autorità civili: per chi lo conosce a fondo, però, sa che lo spirito che lo animava era proprio e sempre l'amore e che pure Gesù a certe persone ha gridato i suoi “guai a voi!”. Vedeva nei deboli e negli esclusi sempre il positivo che hanno e le capacità nascoste. É stato su suggerimento suo che qui in Brasile i “disabili” siano stati chiamati “diversamente abili”, cambiando non solo la terminologia, ma soprattutto lo sguardo su di loro e di conseguenza il modo di trattarli. Sapeva imparare dagli ultimi, soprattutto dagli agricoltori, di cui stimava l’esperienza e la sapienza. Sapeva incontrare collaboratori preparati e li formava non soltanto perché sapessero usare le loro competenze, ma perché si mettessero al servizio degli ultimi. Anche se con sofferenza aveva imparato a “saper perdere” per conquistare a Cristo quanti incontrava. In fondo è stato per tanti un Buon Samaritano e in questo si è sforzato ed è stato un imitatore di Gesù, il Buon Samaritano per eccellenza. Abbiamo la certezza che al suo arrivo in cielo, Gesù se lo sia caricato sulle spalle e lo abbia fatto entrare nella vita beata.
Senz’altro c’era ad accoglierlo una schiera di poveri per introdurlo negli “eterni tabernacoli”, testimoni della verità che Gesù ha proclamato: “tutto quello che avete fatto a uno dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me!”. Vai in pace, don Meo, e parla di tutti noi al Padre!
+ Francesco Biasin
La riconoscenza e la preghiera del cardinale di San Paolo
Anche da San Paolo del Brasile è giunto un messaggio grato per l’esperienza vissuta a Roma, ospite della Parrocchia dei Santi Patroni, ove don Meo Bargese è stato parroco per otto anni. E’ il card. Odilo Sherer, arcivescovo appunto di San Paolo, che scrive a don Egidio Motta, pure lui a Roma nella stessa parrocchia dei Santi Patroni impegnato pastoralmente in questa comunità. “Sono riconoscente a don Meo Bergese – aggiunge il card. Sherer, che ai tempi romani era addetto preso la Santa Sede – per gli anni trascorsi insieme a lui ed a te carsismo don Egidio. E prego con te perché il Signore l’accolga e lo ricompensi. Porta il mio saluto e le mie condoglianze ai familiari, al vescovo di Mondovì ed ai confratelli sacerdoti nonchè a coloro che incontrerai all’ultimo saluto a don Meo, con tanta riconoscenza nel mio animo”.
L’allora vescovo ausiliare Vincenzo Apicella, per don Meo
Anche il vescovo mons. Vincenzo Apicella ausiliare per il settore Ovest di Roma, ai tempi di don Meo parroco nella Capitale, ha voluto inviare un Messaggio sempre tramite don Egidio Motta, per esprimere tutta la sua riconoscenza per quegli anni di collaborazione pastorale, trasmettendo la convinzione evangelica su don Meo “davvero un servo buono e fedele”.
Altre testimonianze su L'UNIONE MONREGALESE di mercoledì 18 dicembre