Martina, volontaria nell’inferno palestinese: «Combattiamo la guerra con la non violenza»

27 anni, insegnante, la doglianese Martina (per motivi di sicurezza non possiamo pubblicare il cognome), da tre anni ormai partecipa al progetto in Palestina di “Operazione Colomba”, Corpo “Nonviolento di Pace” dell’Associazione Papa Giovanni XXIII. Al ritorno dalla terza esperienza nell’inferno palestinese, tra la popolazione ormai allo stremo, Martina ci ha raccontato la sua esperienza ad Ad-Tuwani, un villaggio a sud della Cisgiordania, dove gli abitanti cercano di resistere ormai da vent’anni, in maniera non violenta, all’occupazione israeliana.
Martina, intanto bentornata a Dogliani…
«Grazie. Confesso che il rientro non è mai semplice: da un lato c’è la gioia di rincontrare i propri affetti, riabitare i propri spazi, rigustare le comodità della vita quotidiana; dall’altro, la difficoltà nel trasmettere alle persone ciò che si è vissuto e la lotta con il senso di colpa per essermene andata da quei territori piegati dalla violenza. Quest’anno, poi, le circostanze esterne hanno reso il rientro ancora più particolare. Sono tornata in Italia a pochi giorni dal Natale e in un attimo mi sono sentita avvolta e travolta da quello che per noi è la preparazione a questo tempo. Le lucine, l’albero e il presepe... trasmettono un’atmosfera di festa e di attesa, ma la mia mente non riusciva a non pensare all’ultimo giorno in Palestina, che ho trascorso proprio a Betlemme, la culla di quella nascita. Le vie del centro che conducono alla Basilica della Natività erano deserte e silenziose, i negozi chiusi, in pochi si aggiravano per le strade. La guerra si percepisce anche così. Questo “contrasto” mi ha tenuta molto lontana da quella che chiamiamo “atmosfera del Natale” o, forse, invece, mi ha proprio riportata al cuore di quell’evento straordinario».
Ti trovavi proprio nella zona di conflitto tra palestinesi e israeliani. Qual è la situazione?
«In Palestina sono stata ad At-Tuwani, un piccolo villaggio della Cisgiordania, molto vicino al confine con Israele. At-Tuwani, come i villaggi nei dintorni, si trova in una delle tante zone denominate dagli accordi di Oslo (1993-1995) come “zona C”, ossia territori in cui vivono i palestinesi, ma sotto il controllo militare e civile dello Stato d’Israele. Quest’assetto ha incentivato lo sviluppo di forme di occupazione israeliana illegali per il diritto internazionale, ossia le colonie e gli avamposti, già presenti anche prima degli accordi: vere e proprie “città abusive” all’interno dei territori palestinesi. Gli insediamenti israeliani sono in continua espansione e annettono le terre dei vicini villaggi palestinesi, che sono così costretti a vivere sotto la costante minaccia di violenze alle persone e alle proprietà».
Come reagiscono all’occupazione le popolazioni del luogo?
«La cosa straordinaria di questo territorio in particolare è che gli abitanti della zona che comprende At-Tuwani hanno deciso, da ormai vent’anni, di resistere in modo non violento all’occupazione. Intorno agli anni 2000, infatti, è nato il “Comitato popolare delle colline”, a sud di Hebron. Un nutrito gruppo di persone provenienti da 18 villaggi, che si riunisce per pensare a strategie appunto non violente di resistenza all’occupazione israeliana. Lo scopo del Comitato è reclamare giustizia, il diritto di accesso alle proprie terre e i diritti fondamentali come l’istruzione e l’acqua potabile attraverso, ad esempio, una battaglia legale per il riconoscimento delle terre palestinesi. In un secondo momento le persone dei villaggi del Comitato hanno richiesto una presenza internazionale che li affiancasse nel progetto di resistenza non violenta. È in questo scenario che “Operazione Colomba” è arrivata sul posto, nel 2004. Inizialmente la richiesta era di accompagnare i bambini e le bambine del villaggio di Tuba alla scuola di At-Tuwani per preservarli da eventuali attacchi provenienti dalla colonia e dall’avamposto illegali di Ma’on e Havat Ma’on».
Di cosa vi occupate voi volontari in quel territorio così difficile?
«Attualmente le nostre attività si sono intensificate. Accompagniamo pastori e agricoltori palestinesi nei loro campi vicini alle colonie, documentiamo i soprusi e partecipiamo alle azioni organizzate dal “Comitato popolare”. Insomma, proviamo a sfruttare il nostro “privilegio” di avere un passaporto europeo, per affiancare i palestinesi nella loro lotta politica. Dopo il 7 ottobre (il giorno dell’attacco di Hamas a Israele, ndr.) però la situazione è ancora peggiorata. Ora le aggressioni dei coloni restano impunite, le demolizioni delle case si sono intensificate. La paura e la stanchezza della gente sono il primo segnale che i loro occhi trasmettono».
Quanto è complicato continuare a combattere la violenza con la non violenza?
«Lo sconforto mi ha spesso travolta: mi sono dovuta confrontare con un profondo senso di debolezza e impotenza, con la rabbia e un lancinante senso di ingiustizia. Ammetto che spesso a fine giornata ho desiderato di non aver mai conosciuto quei posti e quelle persone a cui tanto ora sono legata: non conoscerli e non viverli sarebbe stato decisamente più semplice. Poi però colgo la straordinaria potenza di ciò che ho vissuto e percepisco la responsabilità di trasmettere, a chi non ha la possibilità di viverla, ciò che è la resistenza popolare non violenta: stare svegli la notte a giocare a carte mentre si attende l’arrivo dell’Esercito che vuole arrestare gli uomini della famiglia, accompagnare civili palestinesi a compilare l’ennesima denuncia di sopruso, stare insieme ai pastori che ancora una volta decidono di tornare a pascolare nonostante i continui attacchi che subiscono e tanto, tanto altro ancora».
Cosa porterai sempre con te di questa esperienza così significativa?
«All’inizio dell’intervista ho confrontato il “nostro” Natale di quest’anno con il Natale a Betlemme. Pensandoci, forse non è vero che mi sono persa “l’atmosfera del Natale” anzi, probabilmente ho avuto la fortuna di arrivare davvero al cuore del suo significato. Quante volte, durante le feste, ci siamo scambiati un augurio di pace? Ecco, proprio lì dove il conflitto imperversa, ho potuto vivere nella sua forza esponenziale il desiderio di pace che auguriamo alle persone a noi care. La pace è concreta, è fatta di gesti semplici. La pace è apparecchiare tavola per i vicini, è accogliere con un sorriso il peggiore dei tuoi nemici, è continuare ad andare a scuola e coltivare la terra. La pace è esserci, è dirti che sono qui, per te, anche se tutto sembra inutile. Perché la pace non è inutile. Io l’ho vista la pace. Anche quest’anno a Betlemme è nata. Vi prego, non cancelliamola dalla faccia della terra e dalle nostre case».
MARTINA RACCONTA LA SUA ESPERIENZA, AL CINEMA MULTILANGHE DI DOGLIANI
Venerdì 17 gennaio, alle 20.45 nel Cinema Multilanghe di Dogliani, si intrecceranno racconti e musica, nella serata “Musica… che racconta”. Martina, volontaria di “Operazione Colomba”, ripercorrerà i suoi ultimi mesi in Palestina tramite foto, immagini, video e racconti, cercando di illustrare la situazione attuale, divenuta ora particolarmente complicata, con l'infiammarsi del conflitto: mesi di tensione, sogni di pace, speranze, disillusioni e resistenza non violenta. Ai suoi racconti si alterneranno le note dell'Ensemble d'Anches e degli Evolvebrass. L'evento è gratuito.