Lidia tra i testimoni del Novecento, da Levi a Fenoglio

di MARIKA MANGINI
I nomi di scrittori che leghiamo a quei capitoli di storia confluiti in grandi opere che noi tutti conosciamo hanno qualcosa in comune: da Primo Levi, superstite dell’olocausto a Fenoglio, protagonista della Resistenza partigiana, questi autori non si sono limitati a riproporre pagine dei loro diari, non hanno ridotto la loro testimonianza ad una semplice cronaca di ciò che hanno vissuto, ma hanno sentito il bisogno, attraverso la memoria, di ri-creare la loro esperienza, tramutandola in racconto universale. Così anche per Lidia Rolfi, deportata a Ravensbruck, raccontare la propria vita nel campo di concentramento ha significato staccarsi in qualche modo dalla propria esperienza, lasciando maturare quel vissuto, troppo forte, troppo vivo per essere immediatamente consegnato a un libro. E’ stato necessario molto tempo per elaborare, e anche un impegno nel documentarsi su fatti che le vittime della prigionia, al tempo, conoscevano probabilmente solo per sommi capi o che non potevano comprendere fino in fondo. A ciò va aggiunto che raccontare non era così facile, neppure a voce, neppure ai propri cari. E’ la stessa Lidia Rolfi a dirci che, non appena tornata a casa, si era resa conto delle difficoltà enormi a parlare dell’esperienza nel lager. La stampa non andava incontro al bisogno di raccontare, anche perché ognuno, in fondo, aveva combattuto la guerra a suo modo e ognuno voleva dimenticare a tutti i costi. Al ritorno dall’inferno nazista, un altro nemico si profilava all’ orizzonte: una profonda incomunicabilità che si faceva sentire anche con i compagni della Resistenza, perché la storia delle prigioniere era quella di una lotta di fame e di miseria quotidiana, non una storia eroica fatta di imboscate, rappresaglie e scontri col nemico. E quel mutismo che Lidia racconta di avere vissuto quando lavorava nel bosco insieme alle zingare ungheresi in un silenzio totale, assoluto, si ripresentava in forma nuova una volta tornata alla sua vita, in un mondo in cui, se raccontare era difficile per tutti, lo era ancora di più per le donne, il cui posto era da sempre quello di restare a casa. Ma questa voce, soffocata a lungo, a un certo punto ha trovato il modo di esprimersi e da allora non ha smesso di diffondersi. L’ invito a ricordare non è solo per non dimenticare chi è stato vittima di un orrore difficile da spiegare, ma anche monito per cogliere i segnali di pericolo che potrebbero minacciare nuovamente, e in nuove forme, l’umanità tutta. Era il 1983 quando Lidia Rolfi, parlando ad un gruppo di studentesse ad Asti, diceva: «La nostra è senza dubbio una democrazia imperfetta, dove esistono pesanti condizionamenti dei mass media, per esempio, ma dove c’è libertà. Voi giovani dovete stare bene attenti che nessuno ve la porti via».
Non basta solo ricordare
DI LORENZO BARBERIS
L’Istituto dove insegno, il “Vallauri” di Fossano, ha davanti all’ingresso un piccolo giardino, la terrazza “Lidia Rolfi”, dedicato all’autrice di cui in questi giorni ricorre il centenario. Una piccola lapide ricorda la sua figura e riporta alcune righe dei suoi testi relativi alla disumanizzazione dei lager, che riecheggiano quelle molto simili della testimonianza di Primo Levi (di Fossano, tra l’altro, era Lorenzo Perone, l’operaio italiano che contribuì, a rischio della vita, a salvare l’autore dai lager). Autori come Levi e la Rolfi e altri deportati hanno lasciato, con la loro testimonianza, la missione ai posteri di custodire “l’esile filo della memoria”: e proprio questo è il titolo di uno dei libri dell’autrice monregalese.
Uscito per Einaudi nel 1996, affronta il tema del ritorno dei deportati in un’Italia e un’Europa che vogliono “andare avanti”, dove molti membri del fascismo si sono rapidamente riciclati nella nuova era. Un nome su tutti, Gaetano Azzariti, presidente della commissione per la razza sotto il fascismo, che non solo non subisce alcuna conseguenza per il suo ruolo apicale nella Shoah, ma diviene presidente della Corte Costituzionale dal 1957 al 1961. Solo molto di recente strade e luoghi pubblici intitolati ad Azzariti sono stati reintitolati a vittime della Shoah. La memoria è quindi un processo lento, che ha faticato a divenire momento istituzionale condiviso, e sempre sotto la sottile minaccia di vecchi e nuovi revisionismi. La sfida attuale vede la graduale sparizione degli ultimie esponenti della generazione dei testimoni diretti, in un mondo che, per contro, vede la verità storica divenire qualcosa di sempre più fragile, in un clima fluido di “post-verità”, come da alcuni è stata definita una caratteristica della nostra epoca. Il bombardamento di informazioni è sempre più intenso, prima col web, poi con i social, oggi con le possibilità di manipolazione dell’intelligenza artificiale. La soglia dell’attenzione del singolo e collettiva si abbassa, e le competenze di letto-scrittura si affievoliscono nei nativi digitali cresciuti in un ambiente permeato dai nuovi media informatici. La sfida è quindi forse far sì che la memoria non sia solo commemorazione, ma educazione attiva. Non basta ricordare: occorre comprendere, interrogarsi, trovare modi nuovi per raccontare ciò che è stato. Solo così il filo della memoria continuerà a tendersi tra le generazioni, mantenendo vivo il monito di chi ha vissuto l’orrore e ha trovato il coraggio di raccontarlo.