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Grazie alla grande risposta dei collezionisti, ecco la nuova mostra su Buròt

Nel gioiellino di Carrù l'inaugurazione, sarà visitabile fino al 26 ottobre

Grazie alla grande risposta dei collezionisti, ecco la nuova mostra su Buròt

Il compianto Francesco Russo ("Buròt") e uno dei galli da lui realizzato

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Domenica, alle ore 9,30, nella Confraternita del Battuti Bianchi, il Comune, con la Onlus monregalese “col. Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo” e gli “Amici di Carrù”, inaugura la retrospettiva antologica sull’opera di Francesco Russo “Buròt” (1945-2022). Come ricorda il critico d’arte e poeta Remigio Bertolino «il suo iter è stato una continua, infaticabile ricerca per cercare di raggiungere l’essenza dell’arte». La mostra è visitabile il giovedì dalle ore 9.30 alle 11.30; il sabato dalle 16 alle 18.30 e la domenica ore dalle 10 alle 12. L'esposizione sarà aperta fino al 26 ottobre. 

«La risposta dei collezionisti di opere di Francesco Russo Buròt è stata tanto generosa che non è stato possibile riunire, nella pur vasta sede della Confraternita dei Battuti Bianchi, i quadri e le statue che sarebbero state da assicurare». Così hanno spiegato gli organizzatori della rassegna.

«È con profonda gratitudine e sincera partecipazione – aggiunge il presidente della Provincia, Luca Robaldo – che la Provincia di Cuneo rende omaggio alla figura di Francesco Russo, conosciuto da tutti come Buròt, artista che ha saputo raccontare con passione e autenticità la nostra terra e la nostra gente. Nella sua lunga e instancabile ricerca pittorica e scultorea, Buròt ha intrecciato tradizione e innovazione, restituendoci non solo immagini, ma mondi: paesaggi che diventano poesia, volti che custodiscono storie senza tempo, materie umili che si trasformano in arte capace di parlare al cuore e alla mente. La sua opera è testimonianza di un legame profondo con le radici langarole e monregalesi, ma anche della capacità di guardare oltre, di sperimentare senza sosta, di trasformare la realtà in visione. Nei suoi lavori si avverte l’eco delle nostre colline e montagne, della vita semplice e dura dei borghi alpini, ma anche l’apertura verso l’universo interiore, la fantasia, il mito».



Il primo cittadino carrucese Nicola Schellino esprime il suo pensiero ricordando: «A distanza di tre anni dalla sua improvvisa scomparsa, credo che questa mostra, organizzata nel suo paese di nascita, rappresenti un giusto tributo a un artista che ha vissuto in stretta sintonia col territorio di provenienza, come dimostrano le sue radici profonde nella pittura di Langa e le opere che ha realizzato per Carrù, tra cui il cippo per i Donatori di sangue, posto in piazza Mercato, e la grande testa di bue situata all’ingresso del paese. Se questa mostra ci consente di ricordare Buròt, e se ricordare è un modo di incontrarsi, sarà un piacere per tutti i visitatori poterlo incontrare nuovamente attraverso la visione delle sue opere».

L'analisi approfondita del critico Ernesto Billò

Francesco Russo “Buròt” – di origini carrucesi, classe 1945 – compì un lungo percorso sui versanti della pittura e della scultura. Si guardò intorno con la voracità dell’autodidatta ma con l’umiltà di chi punta a esempi alti, traendone stimoli da elaborare senza troppe soggezioni. E dalla sua instancabile attività di artista-artigiano scaturì un’intensa produzione di dipinti, disegni, incisioni e – in parallelo – di “sculture” su pietre, radici, legni e materiali di varia natura, rispettati nella loro essenza ma rivelati nelle loro forze segrete, nelle loro storie remote. Fu aiutato a coltivare le sue precoci attitudini dall’aria respirata in Carrù, a casa dello zio Luigi Borra, pittore, decoratore, musico e direttore di banda (dal quale derivò il soprannome “Buròt”, piccolo Borra). Lo incoraggiarono i carrucesi Emilio e Sandro Vacchetti e, verso i diciotto anni, il valdostano Italo Mus, che lo avviò a dipingere paesaggi montani all’aria aperta ammonendolo a non aver fretta di arrivare. Esempi di schiettezza gli trasmise anche Eso Peluzzi, approdato dall’entroterra ligure alle colline di Monchiero. Lo affascinarono poi gli acrobati e gli arlecchini che vedeva ritrarre da Max Dissar, un francese che si era fatto girovago al seguito di circhi.



Intanto Buròt s’impegnò nel quotidiano lavoro di decoratore, che gli dava da vivere e lo abituava ai grandi spazi da campire con paziente operosità. Aveva la Langa per modello, a portata di sguardo: i colori cangianti, i calanchi, le vigne, i contadini cotti dal sole e segnati dalla fatica. Ed anche i montanari che sudavano sulle avare montagne, che egli frequentava e cantava anche in versi brevi e penetranti e ritraeva in vigorose xilografie e in rivelatrici fotografie in bianco e nero. Nei disegni su carta inseguiva invece linee e ritmi più liberi e sognanti, accarezzati da velature d’acquarello. Allestì mostre e partecipò a estemporanee in mezza Italia e anche all’estero, traendone riconoscimenti ed esperienze nuove, impulsi ad andare oltre.

Non tardò ad accorgersi che l’affezione per quei soggetti e la bravura nel ritrarli con onesta figurazione naturalistica non bastavano a esaurire la sua inquietudine nel cercare, la sua voglia di dire. Allora si accostò ad altri grandi esempi – Léger, Dalì, Picasso, Martini, Mastroianni, Moore... – ma anche ai ciottoli di fiume, agli intrichi dei rami, ai ceppi divelti, alle radici contorte, alle cortecce incise da misteriosi alfabeti. “Da langarolo amo la terra, le pietre, la natura” diceva con candore e con cocciuta determinazione.

La ricerca di quei reperti di evi remoti divenne per lui l’avvio a un’arte diversa. Lavorando di mazzuolo e di scalpello in riva al Tanaro o sotto i ponti, portava in luce messaggi arcani pietrificati da millenni, ne evidenziava storie e armonie imprigionate come per sortilegio. Leggeva dentro quelle venature come si legge il destino nelle rughe di un viso, nei solchi di una mano: impulsi ed energie simili a quelli che agitano il mondo e le creature. Sculture scarne, contorte, drammatiche, arcaiche che richiamano i primitivi, ma anche, con intuitiva adesione, opere di moderni e contemporanei. E da quelle pietre, da quei tronchi, presero ad affiorare toccanti figure di madri e di famiglie, abbracci tenaci e contorcimenti inestricabili; e crocifissi, e partigiani torturati.

Erano tratti di umanità e ricerca di forme nuove, suggerite ancora dalla natura ma subito trascese verso suggestioni inedite, in scultura come in pittura. E in grandi tavole ad acrilico fiammate, cespi, felci primigenie suggerivano ritmi ed eventi di misteriosa vitalità: forme mosse e tormentate ma tese verso l’alto o alla perfezione della sfera. Solo una tappa anche quella, perché Buròt continuò a sperimentare materiali, tecniche, temi e modi espressivi, pur recuperando suggestioni di gioventù – arlecchini festosi di colori, giochi di carte e di bocce, gatti magici e sornioni al chiar di luna, galli dalle creste altissime e dalle code superbe ricavati non più da radici contorte ma da legni docili e candidi colorati all’anilina.

E soprattutto un gran blocco di marmo candido di Carrara ad accogliere, con un simbolo d’amore e di speranza, quanti valicano la soglia del nuovo ospedale di Mondovì. Trascinato dall’impeto del carattere e dall’instancabile curiosità e operosità, Buròt arrivò a intuire religiosamente nella natura tracce di forze superiori, di enigmi, di eventi, di aspirazioni e di sentimenti perenni. Insistette su forme tendenti a un altrove, mosse da un inquieto dinamismo o bloccate in una solennità primigenia, ma rivelatrici di orizzonti insospettati: che l’artista-artigiano Buròt continua ad additarci attraverso un vasto patrimonio di opere e di ricordi.

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