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Duemila sere all’opera: il curioso mondo del "loggionista impenitente"

L'ultimo libro del critico musicale Alberto Mattioli raccoglie una selezione dei suoi pezzi. La sua lezione? Non esistono rappresentazioni moderne o tradizionali, solo belle o brutte

Duemila sere all’opera: il curioso mondo del loggionista impenitente

Nel tondo, Alberto Mattioli, critico musicale

Nel momento in cui scrivo, il singolare, puntualissimo conteggio sulla sua pagina Facebook personale è a 2197, ma non dubito che quando questo pezzo verrà pubblicato o letto sarà salito di almeno qualche unità. È impossibile stare dietro alla voracità di teatro in musica di Alberto Mattioli. Al contempo, nell'osservarlo aggiornare questa singolare contabilità con acribia da amanuense, mi torna in mente lo Zio Paperone di Keno Don Rosa: «Di ogni moneta conosce la storia e tutte insieme queste monete raccontano la storia della sua vita».

Critico musicale de "La Stampa" e de "Il Foglio" oltre che collaboratore di numerose testate (tra le altre il "Secolo XIX", "Quotidiano nazionale", "Amadeus"), Mattioli ha all'attivo diverse pubblicazioni, in campo musicale e non, oltre ad aver firmato anche dei libretti d'opera.

Il suo ultimo "librino" come ama chiamarli, è una raccolta di articoli vergati negli ultimi anni sui vari periodici per cui collabora. "Il loggionista impenitente - Duemila sere all'opera" edito da Garzanti propone fin dal titolo la sua prosa colta e ironica al servizio di uno strano mondo, che oggi si è ristretto fino a diventare una nicchia, ma che tuttavia gode di una sua tutta particolare vitalità.

Un mondo di "salme imbalsamate" profondamente avverse ai registi moderni che devastano il "Povero Verdi", ma anche un mondo di curiosi globetrotters, giornalisti, addetti ai lavori, appassionati che di teatro non possono fare a meno e che saltano di treno in aereo alla ricerca della successiva "prima" o di una nuova alzata di sipario. Un mondo di vecchie carampane che scartano caramelle nei momenti meno opportuni, e di incursioni di turisti cafoni, che scattano foto con il flash e commettono altre nefandezze dai palchetti delle sale all'italiana del belpaese. Un mondo, però anche di competenti sommeiller della nota, capaci di assaporare la ricchezza di colori che un direttore d'orchestra ha saputo cogliere in un dato passaggio, o di valorizzare il gusto del cantante che, a dispetto dell'acuto strappa applausi, sceglie l'interpretazione più aderente alle intenzioni del testo.

Un mondo di cui generalmente il grande pubblico si disinteressa finché l'attualità, in qualche modo, non ci entra dentro a forza, ad esempio quando per ragioni esclusivamente geopolitiche un soprano come Anna Netrebko o un direttore come Valerij Gergiev nei cartelloni iniziano a suscitare polemica. O, più recentemente, quando la nomina del direttore della "Fenice" di Venezia diventa un caso politico. In quel caso si innescano dibattiti del tutto lunari per chi segue abitualmente la scena ed ha un minimo di conoscenza dei meccanismi delle fondazioni liriche.

L'opera è sempre stato un mondo complesso, ricco di contraddizioni e composto da tanti aspetti diversi, che devono collimare. Un'arte, per certi versi, estremamente colta, elitaria  e al contempo in passato estremamente popolare. Una serata d'opera riuscita è un evento quasi miracoloso, considerando che deve unire un cast di cantanti all'altezza, una buona esecuzione di coro e orchestra, una direzione musicale illuminata, una regia intelligente. Tutto per rendere al meglio una combinazione di testo e musica predisposta da autori terzi, spesso vissuti centinaia di anni fa.

Nel "Loggionista impenitente" si trova un po' di tutto: dai pezzi legati a fatti di cronaca, alle considerazioni di costume, dai grandi personaggi a note divulgative dedicate a titoli operistici. Si ride spesso e ancor più spesso si riflette. Gustosissimi i ritratti dei protagonisti, a partire dalla "Santa" Cecilia Bartoli a cui Mattioli attribuisce poteri taumaturgici, oltre che musicali. C'è anche una pennellata, tra direttori, critici, cantanti e sovrintendenti, per un papa, Benedetto XVI, il pontefice "più musicofilo dai tempi di Clemente IX".  Numerose sono le recensioni, che raccontano nel dettaglio significative serate o colossali fiaschi. Il tutto però legato da un concetto, che è quello sotteso non solo al libro ma a tutta la produzione giornalistica musicale di Mattioli.

Quale deve essere il senso di andare ad ascoltare, oggi, il Xerse di Francesco Cavalli, opera scritta nel Seicento? Andare ad assistere a un pezzo di storia dello spettacolo come si andrebbe in un museo ad ammirare le vestigia del passato, oppure andare a riscoprire un testo che, dopo più di tre secoli, dice ancora qualcosa della nostra contemporaneità, esattamente come un film di Paolo Sorrentino o un'installazione di Maurizio Cattelan?

Alberto Mattioli

Ecco che da questa prospettiva, si svuota di significato il dibattito sulle famigerate "regie moderne" che hanno il vizio di sostituire cappe e spade con ambientazioni diverse e idee che vanno ben oltre la tradizione e la prassi, che spesso si consolidano a prescindere dalle intenzioni degli autori.

Ecco allora la distinzione fondamentale di Mattioli: non regie tradizionali e moderne ma belle e brutte.

Ci possono essere rappresentazioni molto aderenti alla tradizione eppure innovative e interessanti nel fare spettacolo con idee nuove e una movimentazione fresca e curata. Allo stesso tempo, impostazioni più moderne che inanellano provocazioni e trovate fini a sé stesse e che inseguono l'originalità ma senza, in definitiva, evidenziare un'idea, un taglio, una visione del libretto che si va a mettere in scena. Il senso deve sempre essere quello di migliorare, prima ancora che la comprensibilità, la comunicazione al pubblico moderno.

La magia e la sfida dell'opera d'oggi, quando non si ha a che fare con titoli inediti beninteso, deve essere restituire al repertorio la forza dirompente che ebbero quegli spettacoli quando furono rappresentati per la prima volta o rintracciare, in titoli dimenticati, i tratti di interesse che ne evidenziano l'inattesa freschezza, a dispetto degli anni trascorsi.

Il loggionista impenitente continua a curiosare tra i sipari, beandosi di quanto di meglio ha da offrire ogni serata (che sia la regia a dispetto del tenore cane, o viceversa una direzione meravigliosa a dispetto, magari, del regista zuzzurellone), consapevole che c'è una sola regola: dell'Opera non sa fare a meno.

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