Inossidabile memoria storica della Valle Ellero e della tradizione del Kyé, Beppe Basso di Prea, presidente dell’Associazione “Nuséch dr Kyé”, ci ha raccontato una serie di aneddoti legati alle usanze e alle tradizioni di questo periodo autunnale, tra le montagne di casa nostra. «“A San Martin a tùte le crave ij davu camin”, cioè “A San Martino si liberavano le capre” – ci ha spiegato –. Ogni famiglia, su da noi, tra le borgate, aveva almeno sette o otto capre: servivano per il latte e in primavera davano alla luce un capretto. A Fre, tre sorelle ne avevano addirittura più di mille. A San Martino si aprivano i recinti e per tutto il periodo le capre erano libere di pascolare dove volevano. Nello stesso periodo si andava a “spiurò”, a spigolare, ognuno era libero di andare a raccogliere le castagne rimaste, anche nei boschi degli altri. Le castagne si potevano mangiare solo dai Santi in avanti, prima si facevano seccare negli “scau”, per venderle. La frutta si conservava nel fieno, per l’inverno o si vendeva ad alcuni commercianti di Mondovì, che salivano fino a Prea per comprare mele e pere con il carretto a mano».
Beppe Basso
«Quelli erano i tempi di Ernesto Calindri – prosegue –. Noi giovani, per avere i capelli lucidi, li ungevamo con l’olio di nascosto dai genitori. Se poi andavamo in bici o in moto i capelli gelavano, diventavano duri e facevano l’effetto brillantina. Venivamo matti per la brillantina “Linetti”, ma non ce la potevamo permettere. Niente veniva sprecato in quel periodo. Si raccoglievano le foglie secche in fasci, avvolte in lenzuola, e si portavano nelle “scapite”. Sul fienile si mettevano le fascine di rami e foglie asciugate in estate e pronte per completare la “ghia”, il pasto della sera delle capre. Con le altre foglie si faceva il “gias” per gli animali e qualcuno le usava anche come giaciglio per dormire. Il letame che si toglieva dalle stalle veniva portato nei prati a valle con le slitte o a monte con i cesti a spalle, dietro casa, dove venivano piantate le patate, anche sotto i castagni perché cresceva poca erba. Quando si abbatteva un albero, si scavava a fondo e si recuperavano tutte le radici, ottime da bruciare negli “scau”. La terra smossa che restava era terreno ideale per piantare le patate. Intanto in cantina fermentava, a fatica, un vino che era più una “picheta” che altro, ricavato da uve Clinto e Americana. Mia nonna era del 1888 e aveva fatto la terza Elementare, diceva che a scuola non si usava l’inchiostro perché costava troppo, allora per scrivere si intingeva la penna nel vino di Clinto. Durante le “vià” noi ragazzi, invece di stare nella stalla, andavamo in giro per le altre stalle a rubare le carrube che i più benestanti compravano per gli asini e i muli e ce le mangiavamo: erano dolci. Per non gravare sulle famiglie, i ragazzi si aggiustavano da “servitù” e le ragazze d’inverno andavano da “servente” in città poi, al ritorno, non volevano più saperne della vita di paese. Sempre in questo periodo arrivavano centinaia di ragazze anche da lontano, addirittura da Cuneo, per raccogliere le castagne in cambio solamente di vitto e alloggio. Altri tempi, altre storie, altre vite. Che non vanno dimenticate».
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