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15 Settembre 2025 - 09:58
Tokyo li aveva fatti immortali, scolpiti in quell’estate del 2021 come statue di bronzo: Jacobs che fendeva l’aria più veloce di tutti, Tamberi che si arrampicava fino al cielo e ne portava giù un abbraccio fraterno con Barshim. Due dèi azzurri, figli di un miracolo, ori olimpici in due tra le discipline più mitiche dell’atletica.
Ed eccoli tornati, settembre 2025, nella stessa città che li aveva incoronati. Ma stavolta il copione è diverso. Non ci sono inni né lacrime di gioia: solo il rumore secco di un cancello che si chiude. Jacobs si ferma in semifinale, 10”16 che non basta. Tamberi inciampa già in qualificazione, tre errori a 2,21, la pedana che diventa nemica.
È la “caduta degli dèi”: la gloria che s’infrange, il mito che svela la sua parte fragile. Un destino comune, nello stesso giorno. A poche ore di distanza. Così come accadde nel 2021.
Jacobs, fusto di potenza educata al centesimo, si ferma in semifinale dei 100: sesto in una batteria feroce, 10”16 (il suo stagionale), e il cancello della finale che si richiude con cortesia crudele. Davanti a lui passano Lyles, Ajayi e Simbine: l’americano vince il turno in 9”92, l’inglese e il sudafricano gli si accodano con l’efficienza dei mestieranti di lusso. Il campione olimpico stavolta non trova la continuità: discreta uscita dai blocchi, ma il “lancio” ai 60 metri s’inceppa, la frequenza non si allunga, la chiusura non morde. Nel frattempo, la finale mondiale dei 100 incorona un nome nuovo sull’altare dei fulmini: Oblique Seville in 9”77, davanti a Kishane Thompson (9”82) e a Noah Lyles (9”89). Segno che l’asse dello sprint si è spostato: Giamaica di nuovo egemone. La notte giapponese, che nel ricordo di Jacobs suonava come un inno, oggi intona uno spartito diverso.
Jacobs, in zona mista, ha il volto tirato. Non cerca scuse. Le parole cadono come pietre: «Devo capire se vale ancora la pena continuare a soffrire». Lui che fu Zeus dei 100, oggi si sente un uomo qualunque, stanco, tentato persino dal ritiro. Non è rabbia: è il dolore lento di chi non ritrova più la scintilla che incendiava i muscoli e l’anima.
Per Tamberi la ferita è più sorda, quasi stonata: fuori già in qualificazione nell’alto, tre errori a 2,21 dopo un primo scavalco sicuro a 2,16. In pedana si vede la fasciatura vistosa sulla gamba; in zona mista le parole sgorgano amare: «Risultato pietoso», mormora, con la sincerità spietata che gli è propria. La sua rincorsa spezzata, il salto che non sale, la pedana che lo respinge. Gimbo lo sa: qui, dove volò nell’Olimpo insieme all’amico Barshim, non ha trovato neppure i centimetri per restare in gara.
Eppure, proprio in questo naufragio c’è la verità dello sport. La vittoria è memoria, ma la sconfitta è carne viva. Gli dèi cadono, sì, ma non smettono di parlare: raccontano che la gloria non è eterna, che ogni oro si paga due volte — prima col sacrificio, poi con la malinconia di non poterlo replicare.
E noi, che li guardammo un tempo elevarsi oltre l’umano, oggi li vediamo camminare come tutti. È forse la loro lezione più grande: ci insegnano che anche nell’abisso della delusione si resta uomini, e che a volte l’umanità vale più dell’oro.
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