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04 Agosto 2025 - 07:48
C’era un tempo in cui le valli del Monregalese raccontavano di alpeggi, mestieri antichi e tradizioni lontane. Oggi, a Pamparato, le stesse valli risuonano di corde pizzicate, melodie nordiche e racconti celtici. Dal 22 al 26 luglio il borgo si è trasformato, per la settima volta, nella capitale italiana dell’arpa celtica, grazie al Festival Internazionale organizzato dalla Celtic Harp International Academy - Italia, con il patrocinio del Comune.
Un’edizione da record, che ha portato in Alta Val Casotto oltre 35 arpisti, un terzo dei quali dall’estero, e una carovana di artisti, studiosi e appassionati. Pamparato ha accolto non solo un evento musicale, ma una vera esperienza collettiva: corsi giornalieri, conferenze, concerti serali, jam session, narrazione orale e momenti conviviali. La musica ha invaso ogni angolo del borgo, dalle aule dei corsi all’Oratorio di Sant’Antonio, fino al Castello Cordero di Pamparato, che ha ospitato la conferenza-concerto inaugurale dedicata alla mitologia gallese.
Ma il festival non si è fermato alla musica: ha abbracciato l’intero paese e i suoi protagonisti. Tre serate sono state co-organizzate con attività ristorative locali, che hanno saputo raccontare il gusto e l’ospitalità del territorio. Il pubblico ha potuto cenare sotto le stelle alle Mura di Malapaga, nell’elegante atmosfera dell’Albergo Alpi, e, per la chiusura “fuori festival”, nella magica cornice del Castello di Casotto, dove la Locanda del Mulino di Valcasotto ha curato una serata speciale che ha incantato anche le autorità presenti e le telecamere di TeleCupole.
A raccontare questa crescita e il senso profondo del festival è Valentino Barbareschi, presidente della Celtic Harp Academy, ideatore e anima della manifestazione.
Valentino, com'è andata questa settima edizione?
Letteralmente, il festival è esploso. Naturalmente in senso positivo! Rispetto alla media degli anni scorsi abbiamo raddoppiato i numeri, e solo tra gli arpisti abbiamo avuto 35 allievi. Un risultato che ci ha stupiti e resi felici: per la prima volta possiamo dire che il festival è davvero internazionale al 100%. Un terzo dei partecipanti veniva dall'estero, in particolare dall'Irlanda, con una scuola che ha portato nove allievi e due tutor.
I numeri, però, non sembrano essere l’obiettivo principale.
Esatto. Non ci interessano i numeri fine a sé stessi. Per noi sono solo una cartina di tornasole, un indicatore della qualità del percorso. Già 20 iscritti per questo tipo di eventi è un traguardo notevole. Il nostro obiettivo è sempre stato creare qualcosa di profondo, accogliente, autentico. E oggi siamo davvero entrati in un circuito europeo: colleghi e insegnanti stranieri consigliano il nostro festival ai loro studenti. È un bel segnale.
Che cosa rende questo festival così speciale, secondo te?
L’accoglienza. Sembra una parola semplice, ma è tutto. Il nostro team è fatto di amici che, pur provenendo da esperienze e formazioni differenti, si ritrovano ogni anno con lo stesso spirito: creare una famiglia artistica. Per noi il primo obiettivo non è nemmeno la musica, ma il far sentire chi arriva a casa. E i partecipanti lo percepiscono: è un clima umano, fatto di rispetto, affetto, entusiasmo. Poi certo, c’è la musica, e anche lì abbiamo innovato.
In che modo avete innovato l’aspetto didattico?
Abbiamo cambiato il sistema: prima avevamo classi per livelli, con gli insegnanti che ruotavano. Quest’anno abbiamo adottato il metodo “a moduli”, più simile agli altri festival internazionali. Ogni partecipante ha potuto scegliere in libertà, tra moduli di livello e argomenti diversi. Abbiamo anche potuto alzare il livello dei corsi di perfezionamento. I nostri docenti sono stati straordinari: hanno saputo trasmettere contenuti di qualità, anche agli irlandesi che arrivavano con una preparazione già molto avanzata. L’arpa, come il folk in generale, evolve. E noi dobbiamo insegnare anche a innovare la tradizione.
I concerti serali sono stati molto diversi tra loro. Che messaggio volevate dare?
Che la musica può essere tante cose: un racconto, una carezza, una battaglia, un invito alla bellezza. Ogni artista ha portato il proprio linguaggio. Martedì abbiamo aperto con una conferenza-concerto nel castello, tra racconti del Mabinogi e intermezzi musicali. Mercoledì il gruppo “Oltre Confine” ha attraversato le tradizioni, dalla Sicilia all’Irlanda. Giovedì c’erano 17 arpe sul palco, italiane e irlandesi insieme, e poi Adriano Sangineto con la sua arpa futuristica, una vera orchestra in un solo strumento. Venerdì Jill Devlin e Siobhan Buckley ci hanno regalato un momento intimo e toccante. E poi, la voce di Stefania Tasca con il brano “Siamo tutti liberi”, un messaggio potente, lanciato con delicatezza e talento.
Il festival si è chiuso ufficialmente sabato 26, ma c’è stato un ultimo appuntamento il 2 agosto al Castello di Casotto. Cosa ha rappresentato per voi quella serata?
È stato un momento speciale, un fuori festival che ha racchiuso il senso dell’intera esperienza: la musica, il territorio, l’amicizia. Abbiamo avuto ospiti, autorità, giornalisti, e il pubblico incantato nella cornice del Castello. L’organizzazione della Locanda del Mulino è stata impeccabile. È stato un modo per dire grazie, concludere con bellezza, e ricordare che questo festival è fatto di relazioni vere, radicate nel luogo che lo ospita. Pamparato non è solo un palcoscenico, è parte viva di tutto questo. E il mondo se ne sta accorgendo.
Il futuro?
C’è. Lo sentiamo. Ma senza fretta. A noi interessa restare fedeli allo spirito con cui abbiamo iniziato: qualità, accoglienza, passione. Se continueremo così, il futuro arriverà da sé. Magari con qualche corda pizzicata in più.
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