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07 Agosto 2025 - 14:29
C’è qualcosa di misterioso e intimamente personale nel rapporto tra un poeta e la lingua, che emerge con più forza se questo artista è abituato a esprimersi in dialetto. La scelta di scrivere utilizzando un idioma piuttosto che un altro non è sempre frutto di considerazioni fredde e razionali. Spesso invece ha a che fare con un’urgenza profonda, la stessa che spinge a prendere la penna in mano e mettere pensieri su carta.
Chi conosce e segue il lavoro di Nicola Duberti, aprendo la raccolta poetica uscita in questi giorni per l’editore “Carabba”, è consapevole di quanto peso abbia questa scelta nell’approccio alla scrittura. Non è la prima volta che l’autore sceglie questa strada: tuttavia, il piemontese in Duberti è seconda pelle, è lingua dell’infanzia, dell’io più profondo, espressione di un’identità profonda, intima. E tale è “Fentanyl 50”: una silloge dai toni forti, inconsueti per Nicola che usualmente caratterizza il proprio sguardo sul mondo con l’ironica leggerezza di chi ravvisa ancora ragioni di stupore anche nei dettagli più minuti del quotidiano.
“Fentanyl 50” assume i tratti di un canzoniere che segue un filo tematico ben preciso, in parte esplicitato dal titolo. Come spesso accade nell’opera lirica e nel feuilleton ottocentesco, il titolo coincide con l’identità del protagonista. Il Fentanyl è potente analgesico, al centro del dibattito pubblico anche per gli abusi che, soprattutto negli Stati Uniti, le persone ne fanno, trasformandolo in una terribile droga. È tuttavia sostanza chiave nel trattare le persone che sono alle prese con il dolor cronico.
Il Fentanyl frantuma i sogni
Ogni risveglio un colpo di martello
le tue mani nodose
per cinque minuti
sollevano impazzite
il coperchio della bara
Ecco quindi che il Fentanyl, in questo forte dosaggio, si pone al centro del rapporto tra l’io scrivente e la “mater dolorosa”, alle prese con cronici problemi di salute che da quindici anni la costringono a letto e che rendono necessaria, da parte del figlio, un’assistenza costante, 24 ore su 24, alleviata parzialmente solo dall’aiuto di una o più badanti. Il riferimento al topos della “Mater dolorosa” è del critico Giovanni Tesio, direttore della collana e autore della prefazione al testo, che ha colto acutamente uno dei riferimenti e delle suggestioni che corrono sotterranei nella lettura di questo testo.
È di strettissima attualità il tema del caregiver, delle difficoltà e delle sofferenze che deve affrontare chi ha un caro in condizioni critiche, bisognoso di assistenza, e che sostanzialmente deve spesso abdicare e cedere pezzi della propria vita alla malattia altrui. È davvero difficile addentrarsi dunque nel ginepraio di questioni etiche e morali sollevate da questo tema, di riflessioni che ne possono scaturire e che non è la sede per esplicitare. “Fentanyl 50”, tuttavia, è il racconto di un cordone ombelicale al contrario, che riconduce il figlio alla madre, ma che passa inevitabilmente attraverso una boccetta di Fentanyl, quasi come una pozione miracolosa in grado di regalare vita, di consentire il sorriso a chi diversamente, affronterebbe un calvario di puro dolore.
“Fentanyl 50” ha l'incisività di un bisturi nel presentare con semplicità una realtà inaccettabile, nel dischiudere l’orrore. A cominciare dalle poche righe che aprono il testo, dove si esplicita che: «Senza il Fentanyl non farebbe che urlare». Un ritardo nell’applicazione e «Il tuo corpo diventa una vigna/carica già dei frutti del dolore/acini rossi rotondi e sanguigni».
Una conclamata dipendenza, che porta l’ammalata ad assumere dosaggi sempre più alti, ma una dipendenza salvifica, per una degente che non ha altro orizzonte che la convivenza con il dolore e per il caro che le sta accanto e condivide con lei una quotidianità rituale e complessa. Emerge anche, a tratti in controluce, un rapporto difficile madre-figlio, complesso, fatto di amore ma anche di amarezza, di recriminazioni, di frizioni nell’incapacità di limare i rispettivi spigoli. Nel guardare la madre trovare conforto in un orsacchiotto di pezza l’io narrante diventa freddo pensando che: «Quando ero così piccolo ma vivo/non hai mai stretto al tuo seno me».
La calma ondata
del Fentanyl riporta alle tue spiagge
i cordoli di alghe avviluppate
alla plastica dura dei ricordi
il maestrale del dolore osseo
normalmente lo sai li spinge al largo
dove il mare degli anni trascorsi
copre i relitti dei sogni
Sulle colonne de “L’Unione Monregalese” Nicola Duberti ha tenuto, alcuni mesi fa, un “Alfabeto di sbadanza” rubrica a puntate dove aveva esplorato in modo amaramente ironico i temi della sua convivenza con la malattia della madre. Quei testi sono in diretta continuità con questo “Fentanyl 50”, che vede emergere con forza il tema della dipendenza dal farmaco e il ruolo preponderante che questo ha assunto. In qualche modo, la raccolta segna un ulteriore passaggio in questo percorso.
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