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La Diocesi in Cattedrale per salutare il Giubileo: «Lasciamo aperta la porta della speranza»

Chiusura del Giubileo a Mondovì: Il vescovo lancia un appello a tradurre la misericordia in carità concreta verso poveri, migranti e anziani, riscoprendo la riconciliazione e la speranza nelle famiglie.

La Diocesi in Cattedrale per salutare il Giubileo:  «Lasciamo aperta la porta della speranza»

Esattamente un anno dopo, come ha fatto notare il vescovo, la comunità diocesana si è ritrovata in cattedrale a Piazza per la chiusura dell’Anno giubilare, avviato proprio nella festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, a fine 2024. E si è vissuta una celebrazione animata dai canti dell’assemblea della Cappella musicale, con buona partecipazione all’interno del duomo, con la presenza di numerosi sacerdoti dalle parrocchie. «A conclusione dell’Anno giubilare vogliamo unire le nostre voci al canto di tutta la Chiesa – ha affermato il vescovo mons. Egidio Miragoli –, che oggi innalza il suo ringraziamento a Dio per il dono dell’indulgenza. Attraverso i sacramenti, il pellegrinaggio, la preghiera e la carità abbiamo fatto un’esperienza intensa della misericordia divina: il Signore ha lavato i nostri peccati e ci ha ricolmati della sua grazia. Durante questo anno abbiamo comunicato nella fede, nella speranza e nella carità, con tutto il mistero di Cristo distribuito nel ciclo dei tempi liturgici. Ora, rinfrancati da questa esperienza di conversione torniamo al ritmo quotidiano della nostra vita. Come i discepoli che hanno visto il suo volto, custodiamo la gioia dell’incontro con il Signore e manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è fedele Colui che ha promesso». E domenica era anche l’ultima occasione per vivere appunto i momenti giubilari, all’interno di una giornata celebrativa, in preghiera, e nell’appuntamento con la grazia all’interno della Riconciliazione sacramentale.

Il vescovo ha sottolineato nell’omelia i testi della liturgia nella Festa della Santa Famiglia di Nazareth, là dove si narra della fuga in Egitto per sfuggire all’orrore dei propositi omicidi di Erode, citando la condizione dei profughi e dei migranti di cui farsi carico in tempi difficili e in situazioni penose. Ma il vescovo ha parlato attingendo alla pagina del Siracide l’impegno a coltivare in famiglia la premura per gli anziani, dando forza alla realtà familiare che deve farsi inclusiva al massimo. In merito al Giubileo che si chiude, il vescovo ha richiamato alcuni temi portanti dell’anno: i poveri di cui farsi carico, il Sacramento della riconciliazione da vivere, la speranza da coltiva e da condividere.

Infine, una parola di ringraziamento a don Andrea Rosso delegato per il Giubileo, per l’impegno di questo anno a proporre i momenti appunto dell’esperienza giubilare in Diocesi.  

Le parole del vescovo di Mondovì: «Dalla Santa Famiglia al Giubileo: un cammino che non finisce»

«Come si usa dire, sembra ieri: esattamente un anno fa, il 29 dicembre 2024, festa della santa Famiglia di Gesù, Giuseppe e Maria, eravamo riuniti per l'apertura del Giubileo; oggi, nella stessa ricorrenza liturgica, siamo qui a ringraziare il Signore per questo “anno di Grazia” che ci è stato concesso. La riflessione è guidata da queste due circostanze. Da una parte, la Santa famiglia; dall’altra, la chiusura del Giubileo.  

La famiglia di Gesù sulla strada dell’Esodo Il vangelo ci presenta la famiglia di Gesù in una circostanza difficile che avvera le parole dell'apostolo Giovanni quando scrive: “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto” (Gv 1,11).

Un mostro senza umanità (Erode aveva ucciso perfino la moglie, la madre di lei, i cognati e i suoi stessi figli) vuole mettere le mani sulla vita del Bambino. E il Bambino con la sua famiglia vive l'esperienza dei suoi padri, in una comunanza di destino: conosce l’esilio, in Egitto, “una piega di Vangelo da frugare liberamente con la fantasia” (L. Santucci), e così è stato tra gli scrittori di leggende e gli artisti. Ma la pagina resta bianca.

Seguirà un nuovo Esodo: dall'Egitto a Nazareth. La citazione inserita nel racconto, “dall'Egitto ho chiamato mio figlio” (Os 11,1) vuole appunto mostrare il significato teologico sotteso alla vicenda: si rinnova la liberazione dal potere del Faraone. San Matteo intende, fin dall'inizio del suo vangelo, inserire la storia di Gesù in una più grande, quella del suo popolo. “Per l’evangelista la storia di Israele ricomincia da capo e in modo nuovo con il ritorno di Gesù dall’Egitto alla Terra promessa” (Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù, p. 129).

Un dramma che si ripete nei secoli.

Io qui vorrei solo sottolineare l'aspetto umano, la condizione di profughi che Giuseppe, Maria e Gesù vivono. Entrato nel mondo, il Figlio di Dio condivide il  destino degli uomini, non ne vive uno diverso. Anzi, deve affrontare una delle condizioni più amare e tragiche che gli uomini infliggono ad altri uomini: quella della fuga con le proprie cose raccolte in qualche modo, senza un destino chiaro e con l’unica certezza di dover patire l'estraneità al luogo cui si approderà. Questo ci rimanda immediatamente agli scenari internazionali odierni; perché duemila anni dopo, ancora, gli uomini infliggono ad altri uomini le medesime folli sofferenze. Verrebbe da citare alcuni scorati versi del poeta Eugenio Montale: "e sempre questa dura / fatica di affondare per risorgere eguali / da secoli” (da: "Giorno e notte"). Penso soprattutto alle tante famiglie che nel mondo vivono situazioni drammatiche. Una fra tutte, ma emblematica è la vicenda delle famiglie di Gaza o della Cisgiordania, cui si potrebbero accostare quelle dell’Ucraina e di altre zone del mondo dove dominano morte e distruzione, violazione grave dei diritti umani: Burkina Faso, Repubblica Democratica del Congo, Myanmar, Somalia, Sudan, Siria…

Il rapporto delle Nazioni Unite 2023 e quello dell’Unicef 2024 offrono cifre impietose. Sono drammi verso i quali ci sentiamo impotenti, ma di fronte ai quali almeno non dobbiamo essere indifferenti. Prima condizione della solidarietà è non chiudere gli occhi, non fingere di non sapere. 

Il dovere di onorare il padre e la madre

La prima e la seconda lettura, spostano direttamente l'accento su di noi, sul nostro vissuto, sulle nostre famiglie, in cui siamo padri, madri, figli. Mi soffermo solo sulla prima lettura, tratta dal Libro del Siracide. È un discorso di fede (Dio vi è nominato più volte, come riferimento e fondamento delle varie esortazioni), ma insieme è un discorso di profonda umanità, quell'umanità che non dobbiamo mai stancarci di richiamare a noi stessi. In particolare, il passo del Siracide può essere considerato come una spiegazione e un commento del quarto comandamento: "Onora tuo padre e tua madre". Qualche sottolineatura sarà utile.

La prima: il brano non si rivolge ai bambini o agli adolescenti, ma ai figli adulti perché si occupino dei genitori anziani. 

La seconda: da questa pagina, emerge l’esatto significato del verbo onorare, ripetuto più volte. Non equivale al semplice obbedire, ma è qualcosa di più: è rispettare, aiutare, dare spazio, particolarmente quando i genitori diventano anziani, quando "perdono di senno” e vivono la loro disorientata ultima fase di vita. Ognuno pensi ai suoi genitori anziani, pensiamo agli anziani nelle case di riposo, (che incontro spesso durante la visita pastorale), o nelle strutture dove si ospitano e si curano coloro che sono affetti dalla demenza senile: non basta ricoverare i vecchi nelle apposite strutture, o affidarli a brave badanti. Occorre anche andare a trovarli, far loro sentire il perdurare di un affetto riconoscente. Non dimentichiamolo: è un dovere!

È l’attuazione del comandamento di Dio. 

Grati per il dono della famiglia È interessante che il brano evidenzi anche la correlazione tra l'onore verso Dio e l'onore verso i genitori: rispettare il padre e la madre è riprodurre sulla terra la riverenza che si deve in cielo al Signore. I rapporti famigliari sono banco di prova della vera religiosità: non si può credere di onorare il padre e la madre celesti se poi non si ha rispetto del padre e della madre terreni, cui si devono la vita, l’educazione, la crescita, e cui certamente va accordato il perdono per eventuali errori. Carissimi, anche se alcune frange della cultura odierna vorrebbero riconsiderare il senso e il valore della famiglia come voluta da Dio, noi non smetteremo di ringraziare il Signore per questa istituzione, luogo certamente di nodi emotivi e affettivi talvolta complicati, ma, quando vissuta nella fede, punto di riferimento saldo che dobbiamo additare senza tentennamenti alle nuove generazioni. Non taciamolo: attentare al senso della famiglia è attentare alla tenuta della società e della civiltà in cui si vive. Custodire in essa i valori del vangelo è garanzia di unità e di pace. 

SI CHIUDE LA PORTA DEL GIUBILEO RESTI APERTA LA PORTA DELLA SPERANZA 

Quanto alla chiusura del Giubileo, non possiamo non viverla con atteggiamento di lode e di ringraziamento. Lo faremo in particolare con le parole del Te Deum al  termine della celebrazione. Ma per qualche istante soffermiamoci ancora a riflettere su cosa ha significato per ciascuno di noi un evento tanto importante. Innanzitutto qualche domanda.

Il Giubileo ci ha interessati? Ci ha coinvolti? Abbiamo sentito la bellezza di questa opportunità? Abbiamo fatto il nostro Giubileo, con le sue pratiche, o siamo rimasti solo spettatori? Ognuno, ovviamente, ha la sua risposta, ma ciò che più conta è il valore delle domande, che dovrebbero indurci a riconsiderare seriamente il nostro modo di stare dentro la Chiesa e di accogliere le sue proposte.

In ogni caso, mi preme ricordare che, ancora una volta, questa sera, ci è offerta la possibilità dell’indulgenza giubilare. Meravigliosamente, la Chiesa incarna la generosità di Dio, che ci tende la mano fino all’ultimo: attraverso il pellegrinaggio alla cattedrale, la professione di fede, la preghiera per il papa, il tutto unito alla confessione e comunione che abbiamo fatto per il Natale o che faremo in questi giorni, potremo ottenere il perdono e la misericordia per tutti i nostri peccati.

Dare continuità allo spirito del Giubileo

E tuttavia, anche a fronte di questa occasione offerta fino all’ultimo, permane il rischio di racchiudere tutto l’impegno dentro un anno particolare, per poi riprendere la strada di prima. Come se il Giubileo fosse una parentesi che si apre e si chiude, mentre, in realtà, la nostra vita è un tutt’uno, nel quale i momenti forti non sono fine a se stessi, ma dovrebbero avere un riverbero, una continuità. Il Giubileo, dunque, come tratto di strada che ha riorientato il nostro cammino, gli ha dato nuovo vigore, e insieme continua dentro la nostra esistenza. Perciò, ha senso ripercorrerne ancora una volta i temi, varcare di nuovo le porte che ci sono state spalancate. 

1. Non dimenticare i poveri

Il Giubileo, l’anno di Grazia, nella sua ispirazione originaria aveva un’attenzione particolare per i poveri. Prevedeva infatti la remissione dei debiti, unita alla  restituzione delle terre e alla liberazione degli schiavi. Tutto ciò mostra come l’anno giubilare volesse restituire dignità ai poveri. Nella sua prima esortazione apostolica intitolata "Dilexi te" (Ti ho amato) papa Leone XIV scrive: “I poveri non ci sono per caso o per un cieco e amaro destino. Tanto meno la povertà, per la maggior parte di costoro, è una scelta. […] Il fatto che l’esercizio della carità risulti disprezzato o ridicolizzato, come se si trattasse della fissazione di alcuni e non del nucleo incandescente della missione ecclesiale, mi fa pensare che bisogna sempre nuovamente leggere il Vangelo, per non rischiare di sostituirlo con la mentalità mondana (nn.14-15). Come Chiesa abbiamo compiuto un gesto di solidarietà e di vicinanza alle popolazioni colpite dalla guerra a Gaza attraverso il canale sicuro del patriarcato di Gerusalemme. Ma l'attenzione ai poveri deve rimanere anche a livello personale. Naturalmente, tenendo conto delle nuove povertà che ci circondano, materiali e no. 

2. La confessione, passo decisivo per il cammino di fede Una delle condizioni richieste per ottenere l'indulgenza giubilare era vivere il sacramento della Riconciliazione.

Lo so, è un sacramento in disuso. È anche un sacramento difficile da vivere. Per tutti. Non siamo umili!

Sembra che non abbiamo più peccati, non sentiamo più di aver peccato e quindi di aver bisogno di perdono, di chiedere perdono. Semmai, andiamo dallo psicologo, perché l’orizzonte interiore si è laicizzato, e quindi i conti con il divino non si fanno più. Ma un conto è “raccontarsi”, e un conto è inginocchiarci e chiedere perdono.

Un conto è vedersi ascoltati, un conto è essere perdonati.

Il sacramento della Penitenza ci assicura che Dio cancella i nostri peccati. Nella Bolla di indizione del Giubileo, papa Francesco diceva: “La Riconciliazione sacramentale non è solo una bella opportunità spirituale, ma rappresenta un passo decisivo, essenziale e irrinunciabile per il cammino di fede di ciascuno. Lì permettiamo al Signore di distruggere i nostri peccati, di risanarci il cuore, di rialzarci e di abbracciarci, di farci conoscere il suo volto tenero e compassionevole. Non c’è infatti modo migliore per conoscere Dio che lasciarsi riconciliare da Lui,  assaporando il suo perdono. Non rinunciamo dunque alla Confessione, ma riscopriamo la bellezza del sacramento della guarigione e della gioia, la bellezza del perdono dei peccati!” ("Spes non confundit", 23). Queste parole valgono non solo per il Giubileo. Dovrebbero valere sempre, per la vita spirituale ordinaria e di tutti. Mi auguro che la confessione magari riscoperta, o comunque vissuta in questo anno, sia stata un'esperienza salutare, bella, capace di far gustare il sacramento della Riconciliazione proprio nella prospettiva indicata dalla Bolla giubilare. Come diocesi cercheremo di garantirne quotidianamente la possibilità presso il santuario di Vicoforte. Come sacerdoti non stanchiamoci di proporla, di essere disponibili, di essere bravi confessori capaci di far sperimentare la misericordia del Padre. Forse, una società che recuperasse un’idea equilibrata del male e del peccato, insieme a quella della redenzione e del perdono, sarebbe una società meno esposta a disonestà, brutalità ed efferatezze verso di sé e verso gli altri. 

3. Portiamo la speranza nelle nostre case e nelle nostre comunità

Infine, la speranza. Tutti abbiamo bisogno di speranza. È una virtù teologale ed è un bisogno dell’animo umano. Ma la speranza a sua volta ha bisogno di essere incarnata, visibile in uomini e donne che ne siano segno evidente. Infatti, non dobbiamo dimenticarlo, non basta parlare di speranza, o dire ai poveri che devono avere speranza. Dobbiamo dare segni concreti che aiutino a sperare. Quale che sia la povertà cui cerchiamo di opporci. “L’amore e le convinzioni più profonde vanno alimentate, e lo si fa con i gesti. Rimanere nel mondo delle idee e delle discussioni, senza gesti personali, frequenti, sentiti, sarà la rovina dei nostri sogni più preziosi” (Dilexi te, 119).

Il messaggio di Papa Leone per la Giornata mondiale dei poveri 2025 attualizza la questione quando ci indica alcuni luoghi in cui urgono segni di speranza che testimoniano la carità cristiana, come fecero santi e sante di ogni epoca: le case-famiglia, le comunità per minori, i centri di ascolto e di accoglienza, le mense per i poveri, i dormitori. Segni spesso nascosti, ai quali forse  non badiamo, eppure così importanti per scrollarsi di dosso l’indifferenza e provocare all’impegno nelle diverse forme di volontariato! (cf n.5). Non pensiamo però che soltanto le situazioni di povertà abbiano bisogno di speranza. In realtà essa è un fuoco necessario a tutti, giovani e anziani, alla società e alla Chiesa, alle nostre famiglie. È un requisito indispensabile ad ogni civiltà che voglia essere tale e che perciò non si può adagiare o chiudere entro orizzonti di disperazione. Solo animati da una autentica speranza di bene anche le nostre parrocchie potranno guardare al futuro senza percepirlo come un muro invalicabile ma guardandolo come un’opportunità. Spesso, temo che questa prospettiva ci manchi.

Sarebbe bello se fosse un lascito duraturo del Giubileo ai nostri cuori.

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