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28 Settembre 2025 - 12:46
“Oops!… I Did It Again”, si potrebbe dire parafrasando un noto titolo di una vecchia canzone di Britney Spears (questa qui). La stagione estiva dei live musicali si è conclusa da poco, eppure ci si ritrova a parlare, sempre più spesso, delle stesse, identiche problematiche. Ed in effetti, è accaduto di nuovo.
Quando nelle ultime settimane l’annuncio di un tour dei Radiohead da rumor si è trasformato in realtà, la notizia ha scatenato l’inferno. Codici W.A.S.T.E., code virtuali, sold out in pochi minuti. E, puntuale, la beffa: a poche ore dall’acquisto, parte degli stessi biglietti erano già in vendita su piattaforme di rivendita secondaria a cifre folli. Una dinamica che conosciamo bene, un copione che si ripete ormai da anni.
Per qualcuno, però, questa ennesima replica non è stata una delusione, ma una conferma: la decisione, già maturata da tempo, di non partecipare più a questo gioco. La scelta di non acquistare il biglietto non è stata dettata dalla rabbia del momento, ma da una presa di posizione consapevole ed anticipando quella che poi si è dimostrata una certezza. Il mercato del ticketing si sta mangiando il mondo dei live. E le ragioni di questo addio vanno ben oltre la semplice difficoltà di acquisto.
I Radiohead non sono una band qualunque. Sono stati pionieri nella lotta alla pirateria, hanno lanciato “The King of Limbs” esclusivamente online, da sempre critici verso le logiche commerciali. Con questa filosofia avevano creato W.A.S.T.E. come un santuario per i fan: un sistema di accesso prioritario che doveva essere un argine contro la speculazione. Eppure, si è rivelato un baluardo fragile. Le intenzioni erano nobili: codici personali, accessi scaglionati per neutralizzare i bot. La realtà è stata spietata: il codice non era una garanzia, ma solo il biglietto per una lotteria dalle probabilità impari. Il sistema, concepito per proteggere, ha finito per ergere un’ulteriore, stressante, barriera.
Chi ci guadagna? Il distributore, di sicuro. La vendita digitale significa costi ridotti, controllo totale e – aspetto più cinico – doppie commissioni: una sulla vendita primaria e una su quella secondaria, quando avviene su piattaforme affiliate. La speculazione non è una prassi, ma un vero e proprio feature sul sistema.
E manco a farlo apposta ci sono delle similitudini con il mondo dei cinecomics di cui si è parlato la scorsa settimana: qui
Dall’Artista al “Prodotto”: Quando il Live Perde la Sua Anima
La scelta, per qualcuno, di rinunciare invece a questa giostra non nasce dalla rabbia verso la band, ma da una presa di coscienza. Prendiamo il caso italiano: la Unipol Arena può contenere 15-20.000 spettatori, per 4 date significa circa 100.000 biglietti venduti. Nel 2017, per il loro ultimo e unico live in Italia (a Monza), ci furono 35/40.000 persone. La domanda è davvero più che raddoppiata? O forse un sistema iper-controllato crea artificialmente una scarsità che alimenta l’isteria collettiva?
Eventi del genere hanno superato oramai la valenza di esperienza musicale per diventare prodotti di consumo ad altissimo prezzo. Si diventa spettatori passivi di un evento mediatico, non partecipanti attivi di un rito collettivo. L’elemento artistico, l’intimità, la magia di un suono che vibra, vengono sacrificati sull’altare della scalabilità e del profitto.
La risposta, per quella fetta di pubblico che si sta defilando, non è la rassegnazione, ma la migrazione. Se 150 euro sono il prezzo per un’unica serata in un ambiente iper-commerciale, è comprensibile investirne 250 in un biglietto per un grande festival europeo. Tre giorni di musica, decine di artisti da scoprire, un’atmosfera di comunità che gli stadi hanno smarrito. Oppure, privilegiare live in spazi più contenuti, da 2-3.000 persone, dove il rapporto tra artista e pubblico non è un’astrazione e la musica respira ancora.
Questa non è una rinuncia, ma un’evoluzione. È la ricerca di un’autenticità che il sistema dei mega-concerti ha sacrificato in nome dell’efficienza e del profitto.
La domanda che resta sospesa non è se i Radiohead siano ancora una band straordinaria e che merita di essere seguita in live: la loro storia e gli album prodotti, in primis Kid-A, parlano da sè. La vera domanda è se il modello di business che avvolge il live, così come quello di altre band di caratura mondiale, sia ancora degno della loro arte. Fino a quando gli artisti, anche innovativi come York e soci, continueranno ad accettare questo sistema il paradosso resterà irrisolto.
La soluzione non sarà, per quanto suggestivo, un nostalgico ritorno alla vendita nelle ricevitorie. Ma forse ritrovarsi meno negli stadi e più in spazi piccoli, come i club che si stanno poco a poco svuotando, sarebbe già un nuovo inizio. Magari ascoltando, come cantava qualcuno, una piccola orchestrina tra «Chimay, Bacardi, Jamaican rhum, White Lady, Beck's bier, tequila bum bum Dry gin, Charrington, Four Roses Bourbon». Dove la musica, ancora, sa di comunità e non di merce.
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