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Morì al bike park di Viola, ecco perché il gestore è stato assolto

Chi pratica downhill «è consapevole dei rischi» si legge nella sentenza

Morì al bike park di Viola, ecco perché il gestore è stato assolto

Andrea Pastor, 38 anni, era vigile del fuoco e sportivo provetto: lasciò moglie e un figlio

Una giornata di divertimento con gli amici trasformata in tragedia in pochi istanti. Erano arrivati in cinque dall’Imperiese per provare i salti della pista di downhill di Viola St. Grée: nessuno immaginava che quel 3 ottobre 2021 sarebbe stato l’ultimo giorno di vita per uno di loro.

La vittima, Andrea Pastor, 38 anni, originario di Pigna, in val Nervia, era un vigile del fuoco. Aveva prestato servizio anche a Cuneo, poi il rientro in Liguria con la moglie e il figlio. Sognava di entrare nel nucleo Saf, l’élite del soccorso dei pompieri. Sportivo completo, oltre a essere un ottimo biker, praticava speleologia, trekking, arrampicata e sci.

Il dramma durante un salto sulla pista più impegnativa dell’impianto, la “Saltimbanco”. Pastor avrebbe mancato la rampa, urtando con il torace contro lo spigolo. Un’infermiera tentò di rianimarlo, ma inutilmente. Nel processo al gestore del bike park, il pubblico ministero aveva chiesto due anni per omicidio colposo, contestando due profili di responsabilità: la mancata osservanza degli obblighi informativi e l’omessa verifica che l’ostacolo fosse «segnalato e riservato solo ad esperti, comunque fornendo istruzioni su come affrontarlo».

Il giudice Alberto Boetti ha però assolto l’imputato. Nella sentenza si richiama quanto affermato dalla Cassazione in casi analoghi: «Il gestore di un impianto sportivo è tenuto a prevenire i rischi atipici, ma non quelli tipici della disciplina sportiva praticata». E ancora: i praticanti del downhill «sono consapevoli dei rischi associati e accettano i pericoli intrinseci di questo sport».

Secondo la difesa, si tratta del primo verdetto in Italia su un incidente mortale nel downhill. All’epoca dei fatti «non esisteva una normativa tecnica, né nazionale né europea, per la realizzazione, progettazione e omologazione di impianti di downhill».

Nonostante ciò, l’impianto sarebbe stato costruito «in conformità con le pratiche comuni del settore». Durante l’istruttoria era emerso il tema della non regolarità della pista, successivamente sanata: «Se il gestore avesse rispettato la legge e tenuto chiusa la pista Saltimbanco, Pastor non sarebbe morto», aveva sostenuto la parte civile.

Per il giudice, però, «il Saltimbanco non poteva definirsi "un’insidia"». Il salto nel vuoto era ben visibile sia dalla seggiovia sia dal bar e offriva ai più cauti la “chicken line”, una variante più semplice: uno degli amici di Pastor la imboccò ed è stato testimone diretto della scena.

In loco erano presenti il regolamento e i cartelli di pericolo. L’assenza di un limite di velocità non avrebbe cambiato l’esito, scrive Boetti: «Affrontare un salto ad una velocità troppo elevata può essere altrettanto pericoloso quanto affrontarlo a una velocità troppo bassa, aumentando il rischio di incidenti».

Analoghe considerazioni riguardano i materassi di protezione – che non coprivano integralmente lo spigolo – e una eventuale rampa di collegamento: la loro presenza avrebbe potuto introdurre ulteriori rischi. «Solo dopo l’infortunio è emerso che la pettorina di Pastor non era sufficiente a proteggere il petto da un trauma toracico», si legge ancora.

Resta così un interrogativo: Pastor avrebbe potuto essere più prudente? «Era prassi comune e consigliabile – osserva il giudice – fare un giro di ricognizione della pista per analizzare i salti e il percorso prima di affrontarli». Il gruppo di amici non lo fece. Neppure questo, però, è qualificato come una vera “colpa”.

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